Mettiamo subito in chiaro le cose: questo non è un album hard rock. Si lo so, il nome che avete letto evoca questo genere o al massimo altri affini come può essere l'AOR, ma non è il caso di "Beautiful Mess".
Ad un lustro dai 50 anni, dopo una vita da "hardrocker" Jeff Scott Soto si prende una pausa e concepisce un lavoro che destabilizzerà molti dei suoi estimatori, i così detti "puristi", che rifiuteranno una così evidente metamorfosi di stile. Scordatevi le urla a cui ci ha abituato, espressione di quella voce possente che dal lontano 1982 è stata protagonista di numerosissime collaborazioni (le più durature con Yingwe Malmsteen e Axel Rudi Pell), di tre album da solista ed altri come frontman dei Talisman. Jeff ha voluto mischiare le carte e da abile giocatore ha saputo fare la mossa giusta, quella di rinnovamento che ogni artista dovrebbe mettere in atto, certo, se si deve fare la fine di Chris Cornell (Soundgarden, Temple Of The Dog, Audioslave) e screditare quanto di buon fatto con un album ("Scream" del 2009) a dir poco ridicolo, è meglio proseguire sulla propria strada e fare quello per cui si è nati, senza sperimentare avventure in ambienti alieni anni luce dal proprio mondo.
Questo lavoro, dal potenziale commerciale elevatissimo, è datato 2008, ma come dichiarato dallo stesso Soto ha avuto una gestazione mentale di molti anni, ciò sarà palese solo ascoltandolo con accuratezza, gli arrangiamenti sono curati in ogni minimo particolare. La prova vocale è come al solito impeccabile e prova la completezza di questo formidabile cantante.
L'album muove da "21 St Century", che da subito evidenzia il cambiamento di rotta del Soto: il riff iniziale potrebbe ingannare e rimandare al passato, ma il seguito è praticamente pop sporcato di rock, ma di quel pop fatto bene, di quello che dovrebbe andare in classifica; "Cry Me A River", se è possibile, è ancora più sorprendente, sembra di sentire il miglior Lenny Kravitz, il ritornello è di quelli che rimane in testa al primo ascolto.
Chitarra acustica e battiti synth stanno alla base di "Gin & Tonic Sky", brano che sa di classico e che offre il Jeff Soto più romantico, una vera perla. (A proposito di romanticismo vi consiglio la raccolta "Essential Ballad" del 2006, che racchiude le migliori della sua carriera). La successiva "Hey" è un altro potenziale singolo da classifica, un riuscito pop dal sapore estivo, seguita dalla grazia acustica di "Broken Man".
"Mountain" è il brano più discutibile, non sfigurerebbe nel repertorio di un artista R&B, ben ideato fra elettronica e deviazioni rock, è qualcosa che non mi sarei mai aspettato di udire in un album di Jeff Scott Soto, ma personalmente non mi dispiace. Fin qui solo note positive, ma nella seconda parte c'è qualche passaggio non convincente. Su tutti "Bring It Home", davvero troppo hippoppara per i miei gusti, ma anche il semi AOR di "Testify" e il rhythm and blues di "Eye" non mi fanno ammattire. A netraulizzare il tutto però: "Our Song" con il suo refrain irresistibile; il radioso pop rock di "Wherever You Wanna Go" e il funk conclusivo "Kick It" con dei vocalizzi che vi rimembreranno il buon Seal.
Pop, rock, R&B, soul, funk, AOR, elettronica: tanta carne al fuoco e tutta in un colpo solo. Questo significa coraggio e il coraggio va premiato, soprattutto quando porta a risultati soddisfacenti e godibili come questo.
E comunque, a prescindere dai generi, quando un album è bello è bello.
Mai tautologia fu più appropriata.
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