Mi trovo in fila davanti allo Sheperd’s Bush, io 17 anni il mio amico 18, ci guardiamo intorno… siamo gli unici under 40, probabilmente: tutti “vecchietti” nostalgici che non vedevano l’ora che Ian e soci decidessero di fare un viaggio indietro nel tempo e, suonando tutto il loro “Aqualung” e una manciata di classici, li riportassero indietro sul soffio della locomotiva, la locomotiva che non riesce a rallentare.

Il posto è una specie di teatrino barocco, o quello che è, non me ne intendo tanto, però comunque fa il suo effetto, un’ottima cornice per un concerto del genere. Sold out, naturalmente. L’atmosfera è molto calda, sì, sembra veramente di essere nei Seventies, o almeno così mi immagino che fossero i concerti di gruppi del genere in quel periodo, clima intellettuale, allegria diffusa, il cantante che intrattiene la folla durante gli intervalli tra canzone e canzone, ambiente quasi di nicchia (intendo di nicchia più per l’atmosfera che per il numero di presenti). È un vero e proprio revival Anni ’70.

La partenza è affidata all’acustica e alla voce di Ian in “Life Is A Long Song”, da solo sul palco, poi si aggiunge tutto il resto della strumentazione, in un crescendo graduale come sull’album. “E’ un onore aprire per i Jethro Tull”, scherza alla fine della canzone; “questa era del ’71, ora passiamo a qualcosa di nuovo e di fresco… del 1974…”, e parte “Skating Away”, che sinceramente non mi entusiasma molto nemmeno nell’originale, forse per via di quella fisarmonica fastidiosa e pesante. Comunque si capisce sin da subito che Ian è in gran forma, e nel corso di tutta la serata rispetta le aspettative: non risparmia mai la sua ironia scherzosa, mediante aneddoti e battute, e inoltre, il che è la cosa fondamentale, suona, danza, mima, canta, strapazza il suo flauto in tutti i modi, sia seguendo le partiture originali che improvvisando con eccezionali assoli… Vabbè, direte, lo sanno tutti che è un mago con il flauto, ma voglio appunto sottolineare come sono rimasto altamente impressionato dalla sua bravura e dal suo carisma dal vivo, io che l’ho visto qui per la prima volta.

Talvolta tuttavia, forse per eccesso di istrionismo o per desiderio di variare brani che avrà già suonato e risuonato milioni di volte, si avverte nel cantato una certa tendenza ad enfatizzare le parole e ad accentuare il tono teatrale, con il risultato di rallentare alcuni versi che sarebbero stati più belli e più incisivi cantati più speditamente. Insomma, direi: flauto voto 9 e voce 7-. La stessa considerazione vale per Martin Barre, il chitarrista (tra l’altro l’unico insieme a Ian che faceva parte della formazione del ‘71), che, ad esempio nell’assolo di Aqualung cambia un po’ di note e improvvisa, mentre a mio giudizio sarebbe stato meglio suonarlo esattamente come l’originale, lasciandolo nella sua immortale perfezione.

La prima parte del concerto privilegia i brani lenti e tendenti alla musica classica, per cui ecco che dopo alcune canzoni sale sul palco una guest-star, una certa Lucia Micarelli, violinista americana che Ian si è voluto portare dietro dopo il recente tour “orchestrale”. La ragazza, oltre a fare un’ottima impressione “visivamente”, dimostra ottime capacità tecniche ma soprattutto interpretative; sembra infatti che al posto del violino suoni una chitarra elettrica, per quanta violenza e rabbia mette in ogni nota, soprattutto in un Violin Concerto di Sibelius suonato da sola. Violin-rock, si potrebbe definire il suo stile. Da applausi poi l’eseuzione del dittico “Cheap Day Return”-“Mother Goose” insieme alla band, a metà tra il classico e il folk, e il duetto con il flauto di Anderson in “Griminelli’s Lament”, una composizione a due voci di un flautista italiano (che poi Ian prende in giro raccontando alcune sventure amorose), una melodia molto “lamentosa”, appunto, e malinconica.
La prima parte del concerto si chiude dunque con un classico, la “Bourèe” presa in prestito da Bach, che vede un’altra esibizione magistrale di Anderson, sempre più scatenato e sempre più “parte” integrante del flauto. Piccola annotazione negativa: il bassista non esegue tutto l’assolo di basso centrale, ma si limita solo alla prima parte… peccato… La solita smania di variare per forza? (O forse il bassista è troppo giovane e non lo sa fare?)

Il punto forte dello spettacolo, però, è secondo me la seconda parte, quella più elettrica. Si apre con due ottime cover, “Bohemian Rapsody” dei Queen (in cui fortunatamente Anderson non commette l’errore di volere imitare la voce di Mercury, lasciando invece la parte del cantato al violino) e “Kashmir” dei Led Zeppelin, entrambe potenti al punto giusto per scaldare l’atmosfera.
Ecco dunque l’impetuosità di “Cross-eyed Mary” e “Hymn 43”, i virtuosismi chitarristici di “Morris Minus”, strumentale a firma Barre dedicato al suo gatto, ma soprattutto una spettacolare e adrenalinica interpretazione di “My God”, probabilmente la migliore di tutto il concerto, che sarebbe valsa da sola il prezzo del biglietto. Perfetta. Dall’inizio acustico e denso di attesa all’ingresso della chitarra elettrica fino al mitico dialogo tra Barre e il flauto di Ian, culmine emozionale dello show, seguitando per l’assolo dell’ancora più scatenato Ian contornato dalle voci “gregoriane” (eseguite con la tastiera), terminando poi nella scarica elettrica della chitarra e nella dolce chiusura affidata ancora una volta al flauto, divenuto ora placido e ameno.
Segue poi “Budapest”, decisamente migliore rispetto alla versione su disco, epica e malinconica e con una chiusura aggiuntiva in crescendo, che si conclude nel frastuono di tutta la strumentazione... Il calore è alle stelle, l’atmosfera è colma di eccitazione, gli applausi e i fischi di approvazione risuonano per tutta la sala… Ma non sono ancora terminate le acclamazioni che parte il riff di “Aqualung”… A questo punto scoppia il delirio, sento brividi in tutte le parti del corpo, la voce rabbiosa di Ian e il martellante riff  trasmettono un’energia debordante, mi sembra quasi di non riuscire più a trattenermi in questo effimero corpo, tanta è la potenza emotiva della musica…

Ma purtroppo tutto ha una fine…

Non prima del bis, però… Dopo essere rientrati dietro le quinte, esce fuori il pianista e attacca le prime note di “Wind up”, seguito poi da tutti gli altri. Ottima esecuzione. Ancora energia. Sto per esplodere… Non manca molto. Infatti l’esplosione arriva con la canzone successiva… Il momento che ho aspettato per tutto il concerto, e che forse in molti altri hanno atteso trepidanti. Non lo dico neanche il titolo del brano… L’intro jazzistica di piano, uno splendido duello tra il piano e la chitarra, allungato a non finire con le improvvisazioni dei vari strumenti, Anderson che accompagna con gesti da direttore d’orchestra invasato le ultime note di chiusura. Due secondi di silenzio. Il batterista scandisce il tempo con le bacchette e… Via! Si parte… Uno degli attacchi più impressionanti della storia della musica, puro orgasmo musicale… Sono ormai completamente fuori di me, sto oltrepassando la corporeità del luogo per salire sulla locomotiva che sbuffa… sul treno che non si fermerà mai... In nessun modo… No way to slow down!

L’unica altra cosa che sento di dire è un grazie a Ian, grazie per aver concesso uno spettacolo del genere a noi che non potevamo seguirti negli anni ’70, grazie per averci fatto vivere in un altro tempo emozioni di un’epoca passata… Ma d’altronde, certe opere, sono per caso limitate dallo stretto vincolo temporale? Non rimangono forse lì, per sempre, indistruttibili?

PS: l’8 maggio saranno a Firenze, il 9 a Roma, il 10 a Milano… Non perdeteli!

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