Black Rock, roccia nera: un posto nelle Montagne Rocciose in Colorado, o New Mexico? O magari quel sasso custodito, visitato e venerato nella sacra moschea della Mecca?

No. E’ il nome dato a uno studio di registrazione, con annesso villino con sei camere residenziali, realizzato da un operatore musicale greco nell’isola di Santorini. Lo studio aveva aperto nel 2009 e Bonamassa vi si era fiondato appena dopo per realizzare il suo ottavo disco. Infatti eccoti in copertina, virata in nero pece, una foto della porzione di Santorini dirimpetto alle finestre dello studio, un posto della madonna sforzandosi un attimo di considerarlo coi suoi colori naturali.

L’isola e lo studio sono greci, ma la musica dell’album è ancora e sempre strettamente anglosassone: quel misto di blues, di rock, soul, folk basato su vecchie storie di ispirati neri americani di ormai quasi un secolo fa, però fortemente filtrato dal valore aggiunto arrecato dalla rivisitazione inglese di tale ben di dio negli anni sessanta e settanta; e quindi pregno di quegli umori europei, o quantomeno britannici, che hanno fatto sì che esso acquistasse forza e varietà ed esplodesse nel mondo intero grazie ad una miriade di bei nomi, primi fra tutti Beatles, Stones, Who, Cream.

Nessuna concessione quindi, da parte di Joe, al folklore locale. Lui e il suo entourage stavano lì perché il posto è supremamente piacevole e quindi per unire l’utile ad un po’ di dilettevole. D’altronde Bonamassa discende da nonni tutti italiani, quindi quel tantino di “una faccia una razza” ce l’ha, addosso.

La presente collezione di tredici canzoni, cinque sue più otto cover, vale né più né meno come tante altre precedenti e seguenti (qui siamo ancora nel 2010) nella sua discografia. Lui canta sempre meglio, suona sempre meglio, si fa produrre sempre meglio, compone più che discretamente e soprattutto riarrangia e reinterpreta i pezzi altrui assoggettandoli con decisione al proprio stile, talché non ci si accorge molto, in ascolto, se un pezzo sia suo, o invece di qualche tizio vissuto magari ottant’anni fa.

A questo giro vengono celebrati il solito Jeff Beck Group (“Spanish Boots”), Bobby Parker, John Hiatt, un inaspettato Leonard Cohen (“Bird On a Wire”), Otis Rush, Willie Nelson (col vecchio B.B.King ancor vivo e ospite, a duellare insieme a botte di vibrato), James Clark e Blind Boy Fuller.

Bonamassa enciclopedista. Bonamassa divulgatore. Bonamassa riciclatore. Bonamassa che darebbe un braccio per esser nato (beninteso a Londra e non nello stato di New York), nel 1947 e non nel ‘77, quando tutti i giochi musicali di suo interesse erano ormai fatti. Si salva alla grande perché è appassionato, infuocato, bravo senza la minima posa da virtuoso. Quando c’è da correre sulla tastiera lo fa, ma la maggior parte delle volte suona quel che è necessario suonare, con un suono perfetto pur nella sua estrema varietà (decine le chitarre e gli amplificatori presi in considerazione per ogni sua opera).

Ari-quattro stelle, e dai…

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