John Surman è un celebre polistrumentista inglese (sax soprano e baritono, clarinetto basso, flauti dolci, sintetizzatore), noto come jazzista, già cofondatore del gruppo Trio (1969) e collaboratore dei compianti Gil Evans, John Taylor e Kenny Wheeler. Con il tempo ha saputo concepire un genere di musica “pura”, anche se questo aggettivo vuol dire tutto e niente. Certo la “città privata”, lo sconfinato mondo interiore che quasi trent'anni fa egli ha tratteggiato con il più fine magistero in questo disco, non si colloca fra coordinate spaziotemporali. Lo cogliamo fin dal primo pezzo, "Portrait of a romantic": dapprima un mormorare di fiati, quasi una fanfara preistorica, anzi extrastorica, in sordina, che si articola, si struttura, incoraggia all'ascolto, come se un racconto dovesse iniziare; poi un attacco d'infinita dolcezza e sette minuti di passaggi estatici, planate e risalite sul ciglio dell'abisso, un saliscendi tecnico ed emotivo d'ineguagliabile intensità. Come in tutti i pezzi nati da una visione, la coesione è perfetta e si mantiene anche se il suono sbanda fra gli assoli sovrapposti, si sporca, si fa un grido, un mormorio, un arco che si tende e si cadenza, infine si attorciglia per dissolversi. Di fronte a che cosa ci troviamo? Un rituale d'invocazione, una nenia, una liturgia ipnotica? Uno studio del temperamento romantico tradotto nell'ineffabilità della musica pura? Quel ch'è certo è che il gesto del cantore disperde il messaggio nell'atto stesso di enunciarlo, non beffardamente, ma dolorosamente, e pare suggerire che ogni analisi razionale del mondo interiore sia votata allo scacco. Surman destinò questo gioiello a un balletto coreografato da Susan Crow e portato in scena fin dal 1987, l'anno in cui questo disco si trovava in gestazione (fu inciso nel dicembre e reca la data del 1988).

Numerosi sono i passaggi artisticamente altissimi, che spesso maturano attraverso la disarmante - e apparente? - semplicità del canto degli antenati. A volte Surman, non come il viandante sul mare di nebbia, ma come un figlio devoto della natura, sta sulla collina a contemplare, celebrare e interrogare assorto il paesaggio intorno: accade in “On Hubbard's Hill”, dove i fiati echeggiano le remote arie pastorali del folk britannico. Altre volte, come in “Not Love perhaps”, una tetra fantasticheria che prende gradualmente corpo, disegna scenari cupi e spettrali.

Il resto del disco si muove in una dimensione che potremmo, un po' audacemente, definire metafisica. “The Wanderer”, per certi versi la speculare di “Portrait of a romantic”, ha lo stesso soffuso avvio, ma il suo motivo si snoda con grazia intorno a una serie di estatici arabeschi, mentre più strutturata è “Roundelay”, le cui cadenze sono però più marcate, nella filigrana di un complesso sistema di rimandi. In ciò si riallaccia alle antiche canzoni circolari inglesi, quei “round(s)” a quanto pare elaborati nel corso del Duecento all'abbazia di Reading nel Berkshire (dove fu scritto il più antico controcanto della storia, “Sumer is icumen in”). A suggellare il capolavoro è “The Wizard's Song”, che immette nel suo crescendo incalzante da bolero le sonorità di “Portrait”: il concept album si chiude quindi ad anello. La tormentosa ricerca di un equilibrio, che ha toccato il nadir proprio nel centro del disco, fra “Levitation” e “Undernote” - i due pezzi più enigmatici, dove il magma della materia musicale si è fatto rispettivamente densa massa di suggestioni e ricamo nel vuoto -, si è qui conclusa, all'insegna della sublimazione di ciò che rimane dei sentimenti della “città privata”.

Il disco forma un trittico con “Road to Saint Ives” e “A Biography of the Rev. Absalom Dawe”, rispettivamente del 1990 e del 1995, meno melodici e quasi altrettanto rilevanti, intervallati dallo splendido “The Bass Project”. In seguito, fra 1999 e 2003, Surman si è dedicato alle canzoni barocche di John Dowland (1563-1626), strada meritoriamente battuta anche da Sting con “Songs from the Labyrinth” (2006) e a collaborazioni jazz di varia natura, una delle quali, “Svartisen” del 2009, con i nostri Maurizio Brunod (chitarre) e Paolo Vinaccia (percussioni).

Carico i commenti... con calma