La musica afroamericana da sempre assorbe e rielabora le influenze culturali di emisferi diversi in relazione alle epoche storiche. Mentre le prime espressioni di 'musica jazz' vengono dalla coagulazione di influenze anglosassoni ed europee con quelle centroafricane, il percorso musicale di questa musica è passato attraverso influenze caraibiche, brasiliane, latinoamericane, eurocolte, indiane ed orientali. Questa prassi di fusione e contaminazione era in corso molti decenni prima che termini quali 'etnico' o ‘globalizzazione' diventassero familiari.

Numerosi gli esempi: il Jungle Sound della orchestra di Duke Ellington negli anni '30, lo swing Manouche dell'Hot Quintette du France, i Calypso di Sonny Rollins, l'Uccello di Fuoco/Firebird Suite di Parker che cita Stravinsky apprezzato dal compositore stesso per la sua competenza, la bossa nova di Almeida, Bud Shank e Stan Getz. Al di fuori delle derive più prettamente pop, con ‘Jazz' è stato identificato un approccio musicale a prescindere dalle mode del momento, uno stile di interpretazione e scrittura arricchito varie influenze, suoni, strumenti e capacità espressive. Uno dei giri di boa esemplificativi di questo gioco di reciproche influenze è stata la diaspora dei musicisti africani in Inghilterra del 1965, quattoridici anni prima di questa registrazione. Tra i protagonisti Chris McGregor ed i Blue Notes (Dudu Pukwana, Nikele Moyake, Louis Moholo, Mongezi Feza ed il contrabbassista Johnny Dyani; un pianista bianco e cinque musicisti di colore, tutti sudafricani), interpreti della forma musicale popolare delle townships chiamata "Kwela" nata dall'incontro del folk sudafricano con i ritmi del tempo jazz e blues nordamericani e dell'allora emergente free jazz.

I Blue Notes arrivarono esuli in Inghilterra in cerca di un ambiente meno oppressivo dove potere vivere di musica e dove fosse permesso a musicisti neri e bianchi suonare in pubblico e lavorare stabilmente insieme senza essere sottoposti come criminali alla violenta repressione della Aparthaid. Portarono una ventata di energia, gioia e forza iconoclasta in un momento poco vivace della scena musicale inglese, bisognosa di nuove influenze, di sgravarsi dalle icone musicali statunitensi del tempo. Lasciarono così una influenza indelebile su tutto il jazz europeo a venire.

Johnny Djani portava nei Blue Notes notevoli doti strumentali, un approccio originale, stentoreo, ritmico e libero allo strumento e la capacità di coniugare nelle sue composizioni climi musicali gioiosi, ritmici e torridi, estroversi e con una solida scansione ritmica e forza comunicativa, tra i ritmi africani e blues di alta scuola jazzistica. Song For Biko è la quintessenza di questo. Nel più spontaneo e ricco mescolarsi di culture popolari di nord e sud del mondo per partorire qualcosa di nuovo  è il risultato unico di una giornata di registrazione che Dyany volle dedicare al martire dell'Aparthaid Steve Biko. Il fondatore del Black Consciousness Movement sudafricano moriva nove mesi prima della registrazione per le violenze subite in carcere (lo stesso uomo cui Peter Gabriel dedicherà il brano omonimo nel 1980 e R.Attemborough il film Cry Freedom con Denzel Washington
 nel 1987).

Negli studi danesi della Steeplechase per il produttore Nils Winther Dyani e altri due musicisti sudamericani, l'ex Blue Note Dudu Pukwana al sax alto ed il batterista Makaya Ntshoko si uniscono al trombettista Don Cherry per quattro brani (un quinto è stato benemeritamente recuperato e compare in occasione di questa edizione in cd del 1987). Erano anni nei quali la musica, soprattutto a questi livelli, faceva ancora ‘sentire' qualcosa di profondo nei suoi presupposti, la voglia di suonare e di stare insieme dei musicisti, una comunicazione di qualcosa di profondamente sentito (la celebrazione di un martire, indignata, gioiosa ed insieme profondamente malinconica) in una unità di intenti capace di commuovere e portare a risultati 'classici' come questo.

La presenza di una ‘star' come Cherry più che di un gruppo più ospite o di una comparsata promozionale come ci si potrebbe attendere se possibile amplifica l'entusiasmo e la gioia di suonare e comunicare dei musicisti sudafricani; gioia, composta malinconia, rabbia e commozione dedicate a Steve Biko che il trombettista sa fare sue e ricambia lasciandoci una delle sue prove più liriche e convincenti fuori dal gruppo di Ornette Coleman (la cui musica è uno dei tanti riferimenti di Dyani).

Se volete iniziare un percorso di ascolto della musica afroamericana nella sua fase di superamento della ortodossia statunitense, questa registrazione e questi musicisti propongono una musica di una originalità senza tempo, da ascoltare ed assimilare.

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