I Joy Division sono stati i miei Beatles. Per quelli che come me sono “nati” musicalmente nei tardi seventies, sono stati il gruppo più significativo e influente, quello dal quale han preso le mosse tutti altri. A quei tempi i Clash imbracciavano le loro chitarre come fucili e sparavano a zero sullo star system musicale. E i dinosauri del rock non sembravano più in grado di garantirsi l’egemonia della scena. Ecco, proprio allora io iniziavo a realizzare che esistesse una musica decisamente diversa da quella che ci proponevano alla radio nazionale. Così ci volle poco per passare dal punk al post punk e i miei nuovi idoli avevano facce semplici di ragazzi un pò incazzati e depressi. Eravamo entrati negli anni ottanta.

Tra i gruppi post 77, i Joy Division avevano sicuramente l’appeal maggiore. Un nome pazzesco oltreché un immagine spaventosamente “cool”, con quel cantante dagli occhi azzurri, vestito in bianco e nero come il protagonista di un romanzo di Kafka. E la musica e l’immagine seguivano lo stile, anzi lo anticipavano, nella loro rigorosa austerità. Anche per questo i due dischi che ci hanno lasciato sono epocali anche oltre il loro valore e i loro meriti musicali. Saranno quelle copertine di Saville che sono tristemente diventate dei brand di magliette o non so… certo che quei testi fanno rabbrividire ancora oggi, esattamente come le progressioni ipnotiche delle canzoni, a volte serrate come cavalcate punk, a volte dolcissime e disperate. Nessuno più ha sfiorato tale livello di drammaticità ed anche per questo la musica “ha tenuto” nel passare del tempo.

Un buon esempio di quello che sono stati realmente i Joy Division lo si può però trovare altrove. Ad esempio in questo magnifico live “poco” ufficiale registrato alla Town Hall di High Wycombe il 20 febbraio del 1980. Più volte bootlegata ed anche presente sulla ristampa del doppio antologico “Still”, si tratta di una performance potente e vigorosa dove la band è al top della forma ed in 35 minuti snocciola un repertorio essenziale. Il loro set è semplicemente mozzafiato. Intenso, con una resa sonora quasi inquietante che fotografa una band che trova finalmente il suo vero suono - un suono che influenzerà così tante band e artisti da allora. I pezzi sono ormai dei classici. Una “Twenty four hours” letteralmente travolgente ed una “Love will tear us apart” mai così sentita e aperta a nuovi orizzonti pop, una serrata versione live di “Disorder”, veloce e ficcante ed una severa e spigolosa “Isolation”. Il suono è più cattivo e viscerale rispetto ai dischi in studio, il basso di Peter Hook pompa instancabilmente e la voce di Ian è profonda ed espressiva, a tratti disperata come in “Atrocity Exibition”.

A quei tempi i Joy Division erano molto lontani dalla iconica band post-punk che sarebbero diventati dopo la morte di Curtis e cercavano con vigore di imporre la loro scelta musicale ad orecchie finalmente più attente al cambiamento ed alla novità. Dopo sarebbero venuti i tempi della riscoperta e delle celebrazioni ma quella sera alla Town Hall c’erano solo 4 ragazzetti con l’idea fissa di poter assomigliare un giorno ad una vera rock band e volevano farlo con la “loro” musica. Trovo interessantissimo ad esempio l’inserimento delle prove soundcheck del concerto, sempre materiale di ottima qualità sonora. Nessun compromesso, nessun sorriso anche se si tratta di prove. Solo la determinazione delle interpretazioni, dove spicca una “Ice Age” memorabile, marziale ed ipnotica, quasi uscisse da un manuale di krautrock… e che dire di una una “Means to an end” definitiva nel suo incedere, senza sconti verso un finale già scritto. Di lì a tre mesi Ian si appenderà a una corda nella sua stanzetta a Macclesfield e lascerà un vuoto incolmabile per la sua generazione. Su quell’assenza, più ancora che su quella breve presenza, nascerà inevitabilmente il mito.

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