Marshall McLuhan diceva che il medium è il messaggio. Prendendo in prestito con doveroso rispetto la citazione (ci mancherebbe altro), la adatto volentieri a questo "Lovecult" dei tedeschi Jungbluth, arrivati al secondo album dopo un debutto molto promettente che risponde al nome di "Part Ache" e un background capaci di elevarli già a un certo status quo nella nicchia underground del punk europeo. Non è mistero che tre quarti dei componenti portino sulla schiena l'eredità degli Alpinist. Eredità però sarebbe una parola ingiusta, in quanto gli Jungbluth sono un progetto collaterale (divenuto principale) con coordinate proprie che vive di certe idee stilistiche e che intraprende un percorso tutto suo in cui le radici crust si possono sentire flebilmente qua e là, soprattutto in questo nuovo full length, uscito neanche a dirlo in maniera completamente DIY. Dovevo anche scriverlo? Era scontato, però è sempre meglio specificare perché come dicevo riferendomi al nostro caro amico sociologo canadese l'importante è focalizzarsi sul messaggio in sé. In questo gli Jungbluth (già a partire dal monicker) non voglion semplicemente mostrare nuovi percorsi artistici che possano fermarsi a livello prettamente musicale, ma vogliono aggiunger un qualcosa che abbia significato a livello concettuale. Molti lo chiamerebbero ghirigori onanistico, io la chiamo attitudine. E nel punk questa cosa mi piace da morire, non ci posso far nulla.

Parlavo di "Lovecult", giusto. Ma voglio parlare anche un po' di Walter Benjamin. Giuro, non lo sto facendo apposta, non credo che l'aver il nome di Karl Jangbluth mi abbia riaperto la scatola dei ricordi in materia di sociologia, più che altro è che mi riesce estremamente facile prendere spunti un po' alla rinfusa per andare a illustrare cosa vogliano dire con "Lovecult" gli Jungbluth in neanche mezz'ora di lancette d'orologio. Il buon Walter parlava di perdita dell'aurea delle espressioni culturali, dell'arte, di come tutto si stesse meccanizzando, tutto stesse diventando riproducibile, tutto si stesse massificando, facendo perdere quell'alone di originalità unica ed irripetibile che era propria di un dipinto, di una scultura, di quello che preferite. Gli Jungbluth devono aver trovato terreno fertile sulle sue letture e ci costruiscono una prospettiva personalissima basata sul valore cultuale dell'amore. Di come nella società moderna prevalga un sentimento che sentimento in realtà non è, bensì una sintesi asettica di valori che dovrebbero aver tuttaltra verve e passione. Una perdita graduale che porta alla stigmatizzazione e all'emarginazione del diverso, della minoranza. Sì, Erving Goffman ringrazio pure te, lì in platea. Si crea così una cornice-prigione nella quale il "Lovecult" ha voglia di diventare un enorme panopticon che narcotizza e si offre come palliativo per tutte le ragioni di questo mondo. Emozioni che diventano plastica e merce di scambio contribuiscono a una triste fine per la realtà contemporanea. Questo è il sunto del pensiero degli Jungbluth. Non resta che catalizzare amaramente il tutto in musica. Le differenze con "Part Ache" sono evidenti fin dal primo ascolto. Non si tratta di un cambio di rotta, ma è indubbio che la traettoria sia stata limata verso soluzioni più melodiche e capaci di sgretolare via quella carta vetrata fatta di riff distorti e rapidissimi. C'è uno spirito diverso dentro "Lovecult" e le sonorità non possono che cambiare.

Lingua tedesca e inglese confluiscono insieme (anche se la prima rimane nettamente predominante) in un urlato per nulla aggraziato, ruvido, si può definire canonico, ma va bene così. Ogni tanto fa la sua comparsa uno scanzonatissimo clean, che è più un parlato che fa da utile interludio per poter lanciare il mutamento sonoro che si sviluppa con omogeneità lungo ogni pezzo di questo "Lovecult". C'è sana e cristallina personalità in ogni scelta presa. Piaccia o non piaccia, al sottoscritto non tutto convince, va datto atto di questo ai ragazzi di Mûnster. Le virate punk hanno un sapore disilluso e nostalgico, ma per nulla opprimente. L'identità con cui gli Jungbluth giocano è il saper esser abili prestigiatori che si divertono a far prevalere una volta ritmiche sbilenche, poi intermezzi atmosfericamente delicati come in "Lokalkolorit" o addirittura aver dei frammenti di acido post punk che emergono grazie a un lavoro incessante del basso che pulsa, pulsa e pulsa. È un approccio decisamente diretto e non così scorticante, mitigato sempre da refrain che dialogano con trascinanti melodie che giocano a comparire e scomparire, un po' come le relazioni umane che con così poca razionalità vengono scrutate dagli Jungbluth. Buttano fuori ciò che pensano, in modo ponderato sì, ma genuino e questo si sente musicalmente. Non c'è da elaborare, rileggere, analizzare, è tutto molto semplice e ben amalgamato per creare la ricetta definitiva dove trova spazio l'esplosione empatica di testi che si rifanno pure a Thoreau. Back to basics.

Non sarà una rivoluzione questo "Lovecult", ma è un disco che riesce a far dannatamente bene quello che deve fare, cioè punk. Sì, non nel senso tradizionale del termine, difatti ci troverete spruzzate qua e là influenze da scene musicali limitrofe. Quel che è certo è che vi può regalare un ascolto degno di nota in grado pure di far riflettere (volendo) sul tema trattato nella spina dorsale delle dieci composizioni; facendo ripiombare il lavoro nell'antico binomio fra aspetto testuale e aspetto musicale. Gli Jungbluth con coerenza dimostrano che è possibilissimo portare avanti entrambe le cose, senza snaturare nulla, ma semplicemente aprendo un poco la mente.

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