"… Until We Felt Red" è il terzo lavoro in studio della giovane chitarrista Newyorkese Kaki King.
Se avete amato i suoi primi due dischi troverete sicuramente difficoltà a digerire immediatamente questo album il quale si presenta alquanto variegato nei suoni e nelle contaminazioni da sembrare piuttosto disomogeneo; inoltre, per quanto riguarda le sue virtuose evoluzioni chitarristiche, tapping, e "tamburellamenti" vari sulla cassa armonica della chitarra.. beh… in questo disco ve n'è poca traccia.
"… Until We Felt Red" si propone di esplorare panorami a volte più artificiali con una fretta quasi schizofrenica di mettere insieme un disco che strizza l'occhio a tante influenze che vanno dal Pop alla Elettronica, passando per il Jazz e la musica Classica fino a toccare i cupi territori del Post-Rock… La novità che salterà subito all'orecchio dei fans, però, è l'introduzione di un nuovo strumento musicale: la sua voce.
A dir la verità già nel precedente album Kaki si cimenta in una vera e propria canzone (nell'ultimo brano che chiude il disco), questa volta decide di sfruttare di più e meglio la sua flebile voce per concretizzare i propri pensieri e non lasciarli dipingere esclusivamente alle melodie della sua chitarra. Il primo brano [Yellowcake] si presenta con un intreccio vocale ben riuscito sopra un giro di chitarra neanche molto ricercato, un brano piuttosto semplice che cerca la via orecchiabile, più che alternativa. Il secondo brano che dà il nome al disco è sicuramente più degno di nota, infatti dopo un lento e "elastico" fraseggio introduttivo, trascina in un vero e proprio tornado di chitarra cupa, distorta e rumorosa, schiaffeggiata da una batteria picchiante … l'atmosfera è Post-Rock e richiama decisamente una tipica struttura compositiva alla "Mogwai".
Ma è il terzo brano [You Don't Have To Be Afraid], vera e propria perla del disco, a destare interesse: la struttura è quella di una suite che può essere vista come costituita da 3 parti sapientemente sfumate in oltre 8 minuti … la parte introduttiva è affidata ad un intreccio di due chitarre (e poi altre ancora, chissà quante?) che si immergono lentamente in uno scrosciare di strumenti percussivi (maracas?) e melodie intessute da diverse sovraincisioni della voce di Kaki; la seconda parte è caratterizzata da acuti e "scampanellanti" suoni tipo Carillon che sembrano gocce di pioggia che scende dal cielo … ed ecco che il tutto sfuma sulla voce riverberata e melodica che si scioglie nuovamente sul giro di chitarra acustica in un crescendo coinvolgente dove compare chitarra e basso distorti e rockeggianti fino ad una chiusura inaspettata con strumenti a fiato (assolutamente da ascoltare!).
Così si passa al ritmato e jazzato [Goby], quarto pezzo interamente strumentale "rovinato" da accenni di ritmica elettronica … non convincente. Il quinto brano [Jessica] fa il verso al primo rock dei Coldplay, canzoncina niente male dolce e orecchiabile. [First Brain] sesto brano del disco ci porta forse nel luogo più isolato della mente di questa artista, esso disegna un paesaggio vuoto e desolato, compare anche un a solo di tromba. [I Never Said I Love You] è il settimo brano che richiama atmosfere jazzate e cullanti senza rinunciare ad un episodio di schitarrata in overdrive che spezza la dolce melodia della voce; l'ottavo brano [Ahuvati] incanta con il suo giro classicheggiante accompagnato da un tappeto di archi (violini e violoncello).
Il brano n° 9 [These Are The Armies Of The Tyrannized] può essere visto come la fusione di due parti distinte, una prima che strizza l'occhio nuovamente ai Mogwai; la seconda parte prende spunto da una simpatica idea ritmica fino a chiudersi su convulsivi colpi di batteria e chitarra distorta che sul finale però non coinvolge molto anzi resta abbastanza smorta. Nel successivo brano [Second Brain] riappare la voce di Kaki che lascia poi nuovamente spazio a volteggianti arpeggi di vari strumenti a corda e percussivi, molto interessante la miscela sonora di questo brano.
I successivi due brani strumentali [Soft Shoulder] e [The Footsteps Die Out Forever] possono risultare interessanti ma restano in uno stato embrionale e non si sviluppano in modo significativo; il primo piuttosto ritmato mentre il secondo si rilassa in accordi dissonati di corus e "slide". Infine [Gay Sons Of Lesbian Mothers] chiude questo disco con una scarna batteria e basso synth sui quali si aggirano ossessivi armonici riverberati e un fraseggio "slide" che si ripete ad intervalli regolari … il risultato però non è significativamente interessante.
A mio modesto parere questo disco presenta idee e contaminazioni molto suggestive anche se a tratti rimangono sottoforma di accenno e non si sviluppano in modo adeguato (soprattutto verso la fine del disco) e unitamente ad una disomogeneità della sua struttura può portare l'ascoltatore ad un vero e proprio "salto della traccia" … in ogni caso si notano episodi di grande talento nella ricerca espressiva in brani che risultano vere e proprie perle, e non fanno rimpiangere i dischi precedenti…
Elenco tracce e testi
01 Yellowcake (02:50)
it appears (it appears)
unavoidable
glittering stars
star shines
they'll come to you (they'll come to you)
they'll come to you
diamonds deep
in the earth
sparkle though they can't be seen
it can hardly become seen
oooh (oooh, oooh)
open yourself
you will become all that you see (?)
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