Luci soffuse e velluto. Fumo di sigaretta che, dopo sbuffi distratti, si riposa a mezz'aria. Facce che non hanno voglia di parlare, dita che danzano sul bordo del bicchiere. Fuori piove forte e, forse, un po' di pioggia te la sei tenuta dentro.

La band sul palco ci sa fare. Basso (Jeff Goddard) e batteria (Gavin McCarthy) ti sembrano la coppia peggio assortita che tu abbia mai visto: piccolo e peloso il primo, alto e calvo il secondo. Li ascolti suonare insieme e cominci a pensare che non abbiano fatto altro in vita loro. Se la chiacchierano fitto fitto come due compagni di banco, mentre qualcun altro è alla lavagna interrogato: fluido rincorrersi di pulsare di note e rullante. Secco e serrato, ma caldo e "morbido".

Il cantante/chitarrista (Geoff Farina) ha la faccia di un banchiere che non ama il suo lavoro. Tratta le note come fossero acquerelli: le diluisce sapientemente col silenzio ogni volta che ce n'è bisogno, con abili tocchi di pedale le lascia indurire, per cercare la sfumatura che separa suono e rumore ("In Hundreds"), come faceva qualche disco fa, quando tutto era più ruvido e "duro" (come negli stacchi "zanzarosi" di "Original Spies"). Viene fuori così un cielo che non è jazz, non è blues, non è più indie, ma è tutto questo e altro ancora. Sono i contorni ad essere sfumati, sono le architetture ad essere morbide, malleabili, pronte a farsi sedurre dalla voglia di improvvisare, di giocare con i giri armonici, di non limitarsi al solito girotondo di strofe e ritornelli…

Capita allora che ti venga voglia di danzare su di un levare che riesce a non essere banale ("First Release"), o di farti cullare dal languore di un wah wah sguaiato ("Airport"). Succede che ti imbatti in virtuosismi misurati ("Ice Or Ground") e in piccole esplosioni rockeggianti ("Not To Call The Police"). E capita che, quando parte "Corduroy", gli occhi ti si inumidiscano. Dai la colpa al fumo, alla stanchezza, a queste dannate luci che non fanno il loro dovere. Ma sai che non è così. È un blues di una dolcezza spietata, dall'incedere pigro, col vizio di crescere lentamente, ma inesorabilmente, fino a farsi doloroso e distorto… e, ad un tratto, non ti importa più che gli altri possano vederti piangere.

Finchè arriva il tempo di un lungo e straniante respiro ("South"): tutto quello che avevi sentito fino ad allora sbiadisce, del groove e dei suoni cui ti eri ormai abituato, rimane poco o nulla. Ad un tratto ci sono solo echi vicinissimi di note che rimangono impalpabili e una voce di quelle che ti mettono un po' di nostalgia, roca e triste al punto giusto, ma con quel misto di ironia e rassegnazione che la lasciano bella e non stucchevole. Dei Karate amo l'assoluta mancanza di eccessi. Amo la loro capacità di essere originali senza inventare nulla. Amo i contrasti, quelle contraddizioni in termini che non riesci ad evitare quando cerchi di incastrarli in una qualche definizione, in un qualche genere.

"Some Boots" ('02) non fa eccezione: è uno sfumare di suoni l'uno nell'altro, un mescolarsi discreto, perfetto incastrarsi di tante influenze, di tanti spunti. È musica che attraversa i generi, ma in punta di piedi, per non disturbare.

Carico i commenti... con calma