Lear - "Da quando ti sei fatto così traboccante di canzoni, amico?"  Il Matto - "Proprio da quando, zietto, ti facesti due madri, tu, delle tue due figlie; [...] Dammi retta, zietto: prendigli un maestro al tuo Matto, che gli insegni a mentire. Mi piacerebbe molto imparare a mentire. - W. Shakespeare, "Re Lear", Atto I, 4

Dice saggezza popolare che la verità puoi conoscerla solo dai bambini, dagli ubriachi e dai matti.

In tal caso, Kevin Coyne è stato l'uomo più sincero del mondo. Un bambino d'aspetto con sempre indosso i scarp del tennis, folletto sgraziato di poco più di 160 cm., almeno dieci dei quali di scapigliata chioma riccioluta. Una voce chioccia, smerigliata da un'innata passione per il collo delle bottiglie, come e più di tanti suoi eroi dalla pelle scura del primordiale blues del Delta. E con la follìa, beh...non bastasse svariare tra musica, scrittura, cinema ed arti figurative, costui svolse pure attività di assistenza sociale in una clinica di malattie mentali, luogo da cui trasse spesso squarci di ispirazione per popolare la realtà delle sue canzoni. Ma poi, solo ispirazione per i testi? Lo definirono a seconda dei casi "un Joe Cocker alternativo" o "il Beefheart d'Inghilterra". Di più, è stato oggetto di venerazione da parte di personaggi che poco o punto hanno di che spartirsi come Sting, John Lydon, i Mekons e Will Oldham. Una ragione ci dovrà pur essere.

Certo, l'intellighenzia critica del rock dirà che il capolavoro di questo fool del Derbyshire risiede certamente nel suo personale trattato di amor cortese inciso a mo' di duetto con l'algida compagnia arty della teutonica Dagmar Krause ("Babble", 1979). Ma nel mio cuore di ignorante, le venti canzoni raccolte in doppio album da Kevin nel 1973 rappresenteranno sempre il simbolo di come uno spartano folk-blues dal piglio rock può assurgere ai massimi livelli della poesia stracciona e dell'arte di strada.

La ricetta è semplice, come un ragù fatto in casa: un blues ancestrale, elettrificato secondo la lezione dei maestri chicagoani, che si scopre una zigzagante anima folk cantautorale, di quelle abituate a girare il mondo con il cappello in mano e la custodia della chitarra aperta. Una crocicchio che permette l'incontro fra Big Bill Broonzy e Donovan Leitch, di far una volta urbano ed una campagnolo Van Morrison. Il tutto, riammodernato nei suoni perchè c'è una banda che ti accompagna, ma sempre condito dall'irriverenza spirituale e dagli sputazzi di un altro il cui nome inizia per Don, ma che di cognome fa(ceva) Van Vliet.

Sarà pertanto solo un nostro problema sapersi perdere insieme a questa voce irriverente e sguaiata che è in grado di declamare indifferentemente: ballate rock-blues dal diverso grado d'intensità ("Marlene", il suo personale modo di fare una "canzone d'amore"; l'elegia stracciacuore piano e slide di "House on the hill", che in mezzo a cotanta meraviglia descrive l'orrore della vita dentro un ospedale psichiatrico; "Old soldier", Dylan che si fa interpretare dal Van Morrison dei weekend astrali). Oppure acustiche cantilene folk ad altissimo tasso di coinvolgimento emotivo quali "Talking to no-one" ("Talking to no-one is strange, talking to someone is stranger..."), "Jackie and Edna" e la bertjanschiana "Everybody says". Ci sono poi momenti in cui la foia dei due/quarti rock prende la mano ("Eastbourne Ladies"), in cui l'R&B si fa guascone come non mai ("Cheat me", "Chicken wing") e in cui si vuole persino riannodare la tradizione nera dei Grandi Padri ("Lonesome Valley") con i precetti del linguaggio blues-boogie declinato nei pub della terra d'Albione ("Heaven in my view").

Fin qui, tutto in regola, seppur splendido. Ma non si era parlato di follìa? Eccola allora, a strafottere, si tratti di bluesacci deviati ("I want my crown"), di hit-single da colonna sonora di "Qualcuno volò sul nido del cuculo" ("Nasty"), di declinazioni mutanti che sfigurano le dodici battute ("Mummy"), di murder ballad harperiane per sola voce e chitarra acustica ("Dog Latin"), di bozzetti che implorano di spedire qualcuno a recuperargli il senno finito sulla Luna insieme a quello di Syd, di zio Frankie e del Cuordibue ("Karate King" e "Good boy"). Non saremo certo noi a poterlo fare: perchè ci dovranno raccattare ancora sfiancati dalla giga intrapresa al ritmo di "Chairman's ball" e soprattutto ci troveremo ancora lì, a pestare i piedi sul tavolo di legno del salotto come quel matto di Pablo, incalzati dall'irresistibile progressione della sevillana di "This is Spain".

Come al Fool shakesperiano, credo che gli sarebbe molto piaciuto imparare a mentire, a Kevin. Ma la menzogna è roba per noi, presunti "sani" e "regolari". La purezza della sincerità, quella è solo per i matti. E per i veri Artisti.

C'era davvero tanto metodo in quella follìa.

PS: chissà adesso, in quell'universo parallelo dove è appena arrivato ad abitare anche il Capitano, che gran divertimento...

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