Facciamo un piccolo salto nel tempo, prima della guerra in Ucraina, della pandemia, di Trump e della Brexit: è il 2010 e i discografici iniziano a guardare ad una platea di pubblico differente, più introversa e avvezza a quella forma di zuccheroso intimismo dalle tinte pateticamente romantiche che schifa il linguaggio pop, prediligendo forme musicali meno canoniche. Una fetta che consuma abitualmente internet e che poco si riconosce nei dictat della società.

La domanda che sorge spontanea alle varie etichette è come rivolgersi a quella fetta di pubblico annoiata e più sofisticata nei gusti? Come si può ammorbidire sufficientemente nei toni un linguaggio come quello rap, da sempre ruvido, sporco e gretto, per coinvolgerli? E soprattutto, che cosa mai si potrà vendere loro?

La musica di Kid Cudi emerge dunque in questo contesto, assorbendo proprio quella forma di patetismo esistenziale e traducendolo in musica. Non è il primo e non sarà nemmeno il più famoso, ma è sicuramente uno dei volti chiave per poter riassumere quel momento storico.

Il primo "Man On The Moon" portò all'attenzione la possibilità di poter eludere i confini rap, edulcorandolo in una forma di cantato sussurrato più fluida e pescando a piene mani dai generi più disparati. Il secondo capitolo della saga stressa il concetto, portandolo ad estreme conseguenze.

Meno concept del primo, seppur la parvenza di una struttura narrativa ancora aleggi, "Man On The Moon II" è l'apoteosi della proposta di Cudi: il rap pulito e gutturale che si mescola ad un cantanto didattico, talvolta stonato, sussurrato e malinconico che si erge su un tappeto sonoro estremamente variegato. Ci sono i campionamenti e i rimandi all'alt rock anni 90 (la lisergica "Marijuana" con le sue chitarre filtrate e le voci sacre è indubbiamente l'apice dell'album), l'elettronica midtempo notturna dai toni quasi blues, tracce di psych e ovviamente il pop, che si manifesta in ritornelli accattivanti, con un gusto invidiabile per la melodia (Provare per credere, la sbilenca "Erase Me" , primo estratto del disco, è un pezzo di un'orecchiabilità disarmante nella sua ostentata semplicità). Spazio anche per gli episodi più smaccatamente hip hop, come la nebulosa e crepuscolare "The End", capace di condensare passato e futuro.

Dunque un discorso di iperproduzione musicale (si contano una sessantina di professionisti coinvolti nella realizzazione dell'albm) volto a sorreggere i drammi psico esistenziali di Cudi, tra i costanti richiami alla dipendenza (droga e alcool, da sempre le sue croci) e le iniquità edoniste che accompagnano il lifestyle da rockstar.

Manca forse un po' di sostanza che dia forma all'opera nel suo complesso e non alle singole intuizioni (alcune davvero notevoli, va detto) che di tanto in tanto emergono dalla folta e corale tracklist,

Nonostante questo, una tappa interessante del genere, per capirne le evoluzioni successive.

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