KING CRIMSON
L’OTTAVA REINCARNAZIONE
(Auditorium Conciliazione, 11 Nov 2016, Roma)

Ascoltare dal vivo i KING CRIMSON ha in sé il senso romantico del sublime. Proiettato in un maelström di sensazioni senza fine, lo spettatore viene fagocitato da un'esperienza molto esigente dal punto di vista intellettuale ed emotivo, ed è la stessa sensazione che ho provato di fronte alle tele di Turner.
Quando c’è il Maestro Fripp le analisi non sono mai agevoli, soprattutto è importante guardarsi dalla lettera del messaggio. È necessario scavare, portare alla luce ciò che ama nascondere l’imperturbabile anglosassone. L’operazione in apparenza non sembra dissimile da altre icone musicali, impegnate a portare in tour dei mastodontici Greatest Hits. In ordine temporale mi viene in mente quello dei CURE di Robert Smith. Operazioni nostalgiche di indubbio fascino, ma che non aggiungono nulla alla storia dell’artista. Ecco, con i KC ciò che sembra non «è», ed «è» ciò che non sembra. Da sempre la musica dei KC è una questione di autocoscienza, e prende alla testa prim’ancora che al cuore.
È per questo motivo che non tutti apprezzano lo spartito crimsoniano, la cui scrittura cerebrale infastidisce chi non è abituato a sprofondare negli abissi del proprio Io.

Chi ha visto più di un concerto sa che Robert Fripp dopo 21st Century Schizoid Man, brano messo sempre a conclusione del gig, si lascia andare ad una pratica molto comune in ogni angolo del globo: il selfie. Gesto sempre raddoppiato dalla contestuale foto di Tony Levin al suo selfie. Ora, lasciando perdere le derive del pensiero gurdjieffiano, e al netto della mia convinzione di trovarci di fronte a un ciarlatano che talvolta produceva intuizioni geniali, lo sciamano armeno, attraverso gli scritti di Ouspensky e di discepoli come Bennett, ha effettivamente ispirato più di un artista (in Italia, ad esempio, Battiato l’ha più volte citato tra le sue fonti di ispirazione, ma anche Cacciapaglia, autore della suite dell’Albero della Vita), e questo gesto non può non richiamare all’attento osservatore il titolo del boxset che, di fatto, è il traliccio di questo tour: Radical Action To Unseat The Hold Of Monkey Mind (Azione Radicale per annientare la Mente-Scimmia). Per la filosofia di Gurdjieff la mente-scimmia rappresenta il pensiero meccanico.

E cos’è il selfie se non la rappresentazione del pensiero associativo e automatico? Sospetto che quel gesto reiterato, quasi rituale nella postura di Mister Fripp a conclusione del concerto sia un messaggio rivolto alle menti-scimmia.
Ci sta prendendo in giro? Non esattamente, ma quel gesto è già analisi sociale. D’altronde nel booklet allegato Fripp dichiara testualmente:«What I like about this band is that what it is actually doing is not what it appears to be doing» (Quello che mi piace di questa band è che ciò che sta effettivamente facendo non è quello che sembra stia facendo). Ergo, non sta facendo realmente un selfie, non sta realmente portando in giro un’operazione nostalgica. Ogni sera sposta le tessere dell’enigma, inserisce Fracture al posto di ConstruKction of Light o di Sailor’s Tale, ma lascia sempre che sia Starless a concludere i due set e 21st Century Schizoid Man a chiudere definitivamente l’evento. L’intero pattern viene poi cucito da una serie di nuove composizioni dell’ottava incarnazione del Re Cremisi. Da Hell Hounds of a Krim a Devil Dogs of Tessellation Row.

E qui arriviamo alle tre batterie, assolute protagoniste anche dal punto di vista scenico. Mai abbiamo visto tre navi ritmiche (tali sono, occupando l’intera lunghezza del palco) squadernate davanti al pubblico. C’è solo un altro precedente, mai tuttavia uscito dallo studio di registrazione se non per segmenti e mai con la formazione al completo: Septober Energy dei Centipede.
Alle pelli c’erano John Marshall (che svolgeva il ruolo che negli attuali King Crimson è occupato da Pat Mastellotto), Tony Fennell e Robert Wyatt. E chi c’era alla produzione di quell’album visionario che contava il meglio dell’epoca canterburiana, compendio di un suono che dai King Crimson passava per i Soft Machine per approdare al Free-Form Jazz? Robert Fripp, chi altri? Il cerchio si chiude. Ma se nel 1971 la triplice non primeggiava, se non in alcune sezioni della terza e della quarta parte, nell’attuale operazione crimsoniana le batterie hanno effettivamente un ruolo centrale, in alcuni momenti di totale dominio.
In seconda fila, in posizione sopraelevata quattro eleganti gentiluomini, di cui uno in bretelle british style e tre in panciotto, concludono questa vera falange armata, formata da sei alieni guidati da Baal-Fripp-Zebul che, attraversati i bastioni di Orione e le porte di Tannhaüser, sono giunti sulla Terra per consegnare il loro messaggio. Perché i KC sono nel Rock ciò che Miles Davis è stato nel Jazz, una band che immagina il futuro. Solo degli alieni possono incastrare le note eseguendo elaborati intrecci che un attimo dopo si affastellano in un granitico muro sonoro da far spettinare le più estreme metal band. Per capire la magia che i sette ussari crimsoniani compongono sul palco basta pensare agli stormi di uccelli che nei cieli primaverili disegnano forme continuamente cangianti mai perdendo compattezza. È esattamente questa la magia a cui hanno assistito i fortunati spettatori di una band mai uguale a sé stessa. In questa nuova rinascita Fripp richiama un vecchio compagno, Mel Collins, presente a partire da In the Wake of Poseidon fino ad Islands, e sax soprano in Starless, i cui fiati suggeriscono tra l’altro il tentativo riuscito di prendere il posto della chitarra di Belew (The ConstruKction of Light, Level Five).

Se qualcuno pensa che l’ottava incarnazione crimsoniana sia una sorta di circo Barnum non ha ben capito chi sia Robert Fripp, il ragazzo solitario che si trasferì da Wimborne a Londra al civico 93 di Brondesbury Road con uno scopo ben preciso: organizzare l’anarchia, dare al caos una disciplina.

Il primo set viene aperto e chiuso da Larks’ Tongues In Aspic (parte uno e due), tappeto ideale per le cavalcate soniche dei tre batteristi (Mastellotto, Stacey, Harrison). In mezzo si pesca dal secondo album, In The Wake Of Poseidon (Pictures of a City, Peace), da Lizard (Cirkus), Islands (The Letters, Sailor’s Tale), In The Court Of The Crimson King (Epitaph), ancora Larks’ Tongues In Aspic (Easy Money, The Talking Drum) e, infine, THRAK (Vrooom). Una prima parte che alterna rasoiate metal e di rock granitico a brevi momenti di pura malinconia, e che chiarisce come Fripp abbia avuto una felicissima intuizione con Jakko Jakszyk, che pur non essendo il Lake e il Wetton dell’epoca d’oro sfodera una prestazione di assoluto rilievo riuscendo nell’impresa titanica di non farli rimpiangere. La pausa di venti minuti non dispiace assolutamente al pubblico, assediato per oltre un’ora da una macchina da guerra impressionante.

Il secondo set inizia morbido, con un altro brano da Lizard, un frammento di The Battle of Glass Tears ideale per i “cuori infranti” presenti in sala. Gusto bucolico spazzato via da Indiscipline, unico brano estrapolato dal repertorio anni ’80, e non casualmente perché ha lo stesso corredo genetico di RED. Le furiose esplosioni ritmiche lasciano poi spazio alla Corte Del Re Cremisi, accolta con urla a tratti disumane (verrebbe da dire schizoidi). Red, il primo dei due brani dall’omonimo album, è oppresso effettivamente da un protagonismo sopra le righe delle tre batterie che quasi oscurano il gran lavoro di Mel Collins ai fiati e le linee di basso di Levin (ma potrebbe anche essere il suono non bilanciato dell’Auditorium). Non così con la successiva The Construkction of Light, gemma del periodo Belew, che conserva il suo fascino con un lavoro mostruoso di Collins nelle parti prima occupate dalla chitarra di Adrian. A Scarcity of Miracles entra come un raggio di sole mentre infuria la burrasca, rasserenando l’Auditorium con quel suo incedere mellifluo, quella sua atmosfera sognante di cui forse anche i musicisti hanno bisogno a questo punto della performance, a tratti ansiogena. L’inedita Radical Action II e Level Five riportano la tensione a livelli di guardia, con una potenza di suono che si abbatte sul pubblico come uno tsunami.

È il momento perfetto per la catarsi, e quindi per STARLESS, una delle espressioni artistiche più struggenti e audaci degli anni ’70, e, arrischio, elemento-chiave di questo tour, con quella seconda parte che copre il palco di un rosso cremisi, unico cambio-luci dell’intera serata. È un momento di puro ascetismo, con l’auditorium che si trasforma in un santuario di spiritualità. Red è un album postumo, nel senso che fu registrato quando Fripp aveva già deciso di terminare la vita del Re Cremisi. Siamo nel 1974. L’ultimo concerto di quella incarnazione avvenne il 1° luglio a New York, e i momenti memorabili di quella esibizione furono proprio l’Uomo Schizoide e Starless, che chiuse al tramonto il gig con le luci rosse a rendere l’atmosfera anche più drammatica. I King Crimson di Red erano diventati molto diversi dalla classica band del progressive inglese, con una potenza data dalla sezione ritmica Bruford-Wetton sconosciuta alle band coeve e una predisposizione alla sperimentazione, all’improvvisazione con diversi momenti in cui sconfinava nell’informale. Come ha dichiarato successivamente Wetton, dal vivo quei KC avevano molto a che fare con il metallo («strati di metallo scagliati sul pubblico»). Red è un titolo non casuale: ha a che fare con la saturazione dei livelli sonori del banco di missaggio raggiunti durante le sessioni di registrazione. Ed ecco la quadratura del cerchio: Fripp ritorna sul terreno di RED, sul luogo della decisione più sofferta, quando incapace a gestire l’estrema potenza e libertà di quel suono si arrese chiudendo quella stagione crimsoniana, la più feconda per quanto mi riguarda (Larks’ Tongues In Aspic - Starless And Bible Black - Red).

Nuovamente chiarore in sala e fragorosa standing ovation che accompagna l’uscita della band. Pochi minuti e il Re Cremisi ritorna sul trono per il gran finale: 21st Century Schizoid Man. Spasmi, chitarre distorte, la voce tagliente di Jakko e la performance funambolica di Gavin Harrison, con gli altri cinque inebetiti di fronte al suo devastante assolo.
Perfino Sua Maestà si fa sfuggire un cenno di malcelata soddisfazione. Il brano si chiude in un deragliamento finale con il treno in piena corsa che si abbatte sui volti stravolti degli spettatori. Tutti in piedi per un ultimo, infinito applauso.

A due passi da San Pietro è andata in scena l’anarchia disciplinata del Re Cremisi.

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