Titolo mistico e religioso, liriche delle canzoni sullo stesso tenore, copertina con grafica ad effetto, il solito crossover di ritmiche tostissime e ricchezza melodica ed armonica caratterizzano la terza uscita sul mercato, datata 1990, di questo formidabile trio americano basso/chitarra/batteria. Della dozzina di album di studio pubblicati questo è il più melodico, il meno acido, il più beatlesiano, il meno metallico, il più venduto e facile da reperire. E soprattutto è bellissimo, uno dei migliori.

Deflagra subito con “We Are Finding Who We Are” un urlo gospel del vocalist extraordinarie Doug Pinnick, che qui distorce il suo basso creando terrificante fondo e corposità alle evoluzioni della chitarra di Ty Tabor, qui particolarmente ripiena di slabbrati toni grunge (beninteso di sua ionvenzione, nel 1988 in occasione del primo album, bene a monte di Soundgarden e compagnia). Il seguente “It’s Love” gli sta subito appiccicato nel master, ma è ben diversificato intanto perché stavolta canta Ty col suo timbro Lennoniano, e poi è molto più bagnata di super cori, suggestivi ma anche un po’ posticci tanto da disperdere l’iniziale, fantastico groove creato dagli staccati del chitarrista, magistralmente a tempo con la cassa del batterista Jerry Gaskill.

In “I’ll Never Get Tired Of You” ritorna in primo piano l’ugola intensa e carica di soul del bassista di colore; il brano è una specie di mantra farcito nuovamente di cori, bravamente accentato dal creativo e geniale modo che ha Gaskill di piazzare cassa e rullante lungo le misure. Più risonante e melodica è la successiva “Fine Art Of Friendship”, grazie primariamente all’uso del basso a 12 corde che consente alla chitarra di aggiungere punch a piene mani senza preoccuparsi troppo dell’armonia. Bellissimo anche l’assolo “ritmico” finale comunque.

“Mr. Wilson” è una perla melodica di grandiosa risonanza grazie al micidiale, profondissimo arpeggio di Ty, assistito da suono celestiale. E’ lo stesso chitarrista a prendersi il canto solista, per poi concentrarsi su di un super riffone che sembra interminabile ma invece evolve in un assolo a botta e risposta fra due diverse chitarre, per chiudere poi con coretti finali incisi a velocità alterata. E’ una delle migliori del lotto, roba veramente psichedelica, una plausibile rilettura dei Beatles fatta vent’anni dopo, con valore aggiunto di suoni da capogiro e rara perizia strumentale.

“Moanjam” parte sparata a 200 bpm e non si ferma più: è una micidiale jam session di grande energia. Sul groove instancabile del basso (stavolta a otto corde) Tabor parte per la tangente con un assolo interminabile e pieno di note; un’esibizione muscolare che rende del tutto opportuna la narcotica ballata che segue “Six Broken Soldiers” interpretata una tantum dalla soave voce falsettata del batterista Gaskill, con echi al contrario sulla chitarra nel preludio, e insomma odore di Beatles sergeantpepperiani in ogni angolo.

“I Can’t Help It” si premura di restaurare l’hard rock ad incastro ritmico d’alta scuola nel quale i nostri sguazzano come paperelle nel proverbiale stagno, con una coesione e una precisione da vere anime gemelle. Specie nel riff sia la chitarra che il basso che la batteria, tutti con suoni meravigliosi e timing perfetto, danno una delle migliori testimonianze di quanto particolare, peculiare ed originale sia questo trio, capace di essere al contempo rumoroso e caldo, stravagante e melodico, pesante e funky. Vi è pure un assolo di sitar elettrico, e il canto principale se lo aggiudica nuovamente il chitarrista.

Su “Talk To You” i nostri organizzano una falsa partenza iper farraginosa, poi parte un devastante tapping di chitarra assecondato dalla ritmica e ne viene fuori un numero ad altra gradazione progressiva. E di nuovo l’ascolto di quanto chitarra e cassa della batteria siano sincronizzati, mantenendo però tutto il groove e la naturalezza di questo mondo, è un piacere fisico… quando Jerry passa a suonare il ride sulla campana, con una naturalezza e una proprietà ritmica commoventi, si ha l’orgasmo finale, che bravi!

Su “Everywhere I Go” c’è un nuovo canto gospel di Doug sopra un arpeggio paradisiaco, poi viene organizzato un coro strascicato e mistico… ma la canzone finisce presto perché è tempo di “We Were Born To Be Loved”, un concentrato assoluto di sapienza dello staccato, un vocabolario dell’andare a tempo fra strumentisti, il massimo umanamente possibile. Il brano parte con idiosincratici cori di settima, belli estesi mentre la ritmica già prende a giocare abbastanza sincopata. Segue poi un mezzo rap sulle prime ciclopiche sincopi, un’ultima strofa a tre voci e poi esplode la parte strumentale, una faccenda di stop&go, alternanze di riff diversi, variazioni sul tema, botte a destra e a manca all’unisono tanto che non si può neanche parlare di affiatamento fra i tre: questa è fratellanza bella e buona (naturalmente non ci sono trucchi né inganni, la eseguono dal vivo ogni sera, pari pari, senza click, e viene perfetta!).

Il disco va a chiudersi con gli ultimi due numeri, il primo è quello che intitola l’album ed è cantato a turno da tutti e tre, col ritornello che tocca al bassista, bello potente e negroide come d’altronde la sua pelle e la sua razza consentono. A metà pezzo entra un… bolero con tanto di coro, che si dissolve per un’ultima strofa ma poi si riorganizza e determina un finale devastante ed interminabile, ad insostenibile gradazione mistico/psichedelica, che si placa solo quando siamo quasi al decimo minuto. Non si potrebbe fare di meglio anche per il pezzo di chiusura: s’intitola “Legal Kill” ed è semplicemente meraviglioso: puro Ty Tabor quasi da solo, alla chitarra acustica e a stratificare la sua morbida voce in ricchissimi cori. Il miglior suono di chitarra acustica che io conosca, registrato in due piste una a destra e una a sinistra talmente sincrone che vien da piangere ad ascoltarle, così rigogliose e risonanti che persino i plettri contribuiscono al suono in maniera entusiasmante, regge il sacco ad una suggestiva melodia impreziosita da interventi di flauto e di violoncello (in mano a due musicisti ospiti) e chiude stupendamente questo grande album di questo grande gruppo conosciuto da non molta gente.

 

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