Il periodo dell’anno che preferisco è la fine dell’estate: le giornate continuano ad essere rischiarate e riscaldate dal sole, ma non sono più soffocanti, e le serate iniziano ad essere più fresche.

A farmi prediligere questo particolare momento è ancor più la luce: quella luce morbida e un po’ sghemba, che ti si impiglia tra i capelli e non ne vuole sapere di andarsene, che sfuma e ammorbidisce gli angoli. Una luce vivida, ma con discrezione, che quasi a volersi scusare per la bella stagione che si appresta a portar via con sé, ci ammalia lasciando presagire uno scorcio dell’opulenza dei colori dell’autunno prossimo a venire.

In una di queste sere azzurre di fine estate, incamminatevi a piedi scalzi lungo i sentieri d’erba.

Calpestando gli steli aguzzi, che si spezzeranno al peso del vostro passaggio, vi sentirete vivi e liberi e fortunati di esserci, nello spazio-tempo del “qui” e dell’”ora”.

Portate con voi una coperta, una bottiglia di buon vino, tutti i vostri amori perduti, i rimpianti, i rimorsi, le vostre stranezze, le amarezze, le risate immotivate e quelle che salgono dal profondo del cuore, e soprattutto non dimenticate “Sunny Border Blue” di Kristin Hersh.

Fate partire la prima traccia, rilassatevi e stendetevi a contare ad una ad una le stelle: l’amore infinito vi salirà nell’anima, e andrete lontano, molto lontano, come uno zingaro.

L’album della mia Throwing Muse preferita (l’altra, Tanya Donelly, non mi ha mai convinta molto, da solista), va ascoltato così, per rendere al meglio. Se poi avete dei crucci di cuore, e un momento siete depressi e quello successivo vorreste commettere un omicidio, ancora meglio, aderirete come colla allo stato d’animo di Kristin all’epoca in cui compose quest’opera.

Musica cantautoriale americana, indie-folk che a me ricorda le atmosfere care a Elliott Smith, Portland, Oregon, e qualcosa di Polly Jean Harvey. Disco licenziato dalla 4AD, un’etichetta da cui ho sempre attinto a piene mani, datato ormai 2001, ma che vale ancora la pena ascoltare e/o conoscere, perché racchiude dei piccoli tesori, composti, arrangiati, suonati e interpretati da questa piccola, grande donna. Che passa con disinvoltura dalla chitarra acustica a quella elettrica, dai fiati al pianoforte. Ma che incanta in particolare con la sua voce dal timbro infantile, che sfrigola come carta vetrata su pelle e anima.

Uno dei brani più riusciti è di sicuro l’opening “Your Dirty Answer”, dove già si presagiscono gli improvvisi cambi di tempo e gli sbalzi d’umore che caratterizzano l’intero album. Canzone che parte in sordina per poi arrabbiarsi, senza soluzione di continuità. “Non è colpa mia, non è colpa mia se non mi ami quando sono ubriaca. Sono pulita, sono così stanca…sopportami ancora per un pochino.”, canta Kristin.

“Spain”, a seguire, è a mio parere la canzone migliore del disco, e ne racchiude l’essenza in una frase che trafigge, nel finale: “I wanted you to sleep with her and hate yourself, instead of me.” E dire che era partita come il sogno di una vacanza polverosa in Spagna, per rimettere insieme dei pezzi che insieme non vanno e non stanno più, a quanto pare.

“Silica” e “Summer Salt” sono episodi leggeri e solari, che a suo tempo qualcuno aveva definito “dreamy pop”, se vogliamo per forza appiccicare un’etichetta a tutto – per inciso e incidentalmente, mi sono sempre chiesta che bisogno ci sia di farlo, quando l’unica cosa che importa è:“Mi trasmette qualcosa o mi lascia fredda (freddo)? – e in particolare l’ultima delle due song vanta un testo che ho sempre trovato molto spassoso. Parla di tornare indietro, all’epoca in cui eravamo puliti come neonati, per tentare di agire da sobri, ma poi spunta una “toxic thing” che di sicuro verrà annusata volentieri a rendere tutto più movimentato… Mrs. Hersh sa bene a cosa si sta riferendo, e no, non si tratta del sale citato nel titolo.

E l’affermazione successiva, quella per cui “for an ugly boy you sure look pretty” è un’inoppugnabile verità, immantinente ed eterna.

Come d’altro canto è altrettanto vero che è facile, molto facile, ritrovarsi a dormire con “idiots and prophets”, come afferma lapidaria in “Ruby”, altra bella traccia.

Le altre canzoni sono più intimiste e riconducibili alla linea generale seguita da questo lavoro, che si chiude con una “Listerine” lisergica e disillusa, intensa e tesa, passando per una perla incastonata nell’insieme con estrema nonchalance, la cover di “Trouble” di Cat Stevens.

“Le cose si rompono in continuazione. Bicchieri, piatti, unghie. Le promesse. I cuori.”, sostiene la scrittrice Jodi Picoult. Se è vero (mio dio, com’è vero!), “Sunny Border Blue” sembra essere stato composto apposta per ricordarcelo, con una discreta dose dell’ironia necessaria in questi frangenti.

Se ne avete voglia, mettetelo nell’agenda degli ascolti di fine settembre.

P.S. Un ringraziamento sentito e speciale al grande M’sieur Arthur per avermi fornito ispirazione e parole illuminanti per scrivere questa recensione.

Carico i commenti... con calma