Nessuno è perfetto, questo è scontato. Ma quanto i difetti che ci appartengono condizionano le nostre vite? I miei, recentemente, hanno rischiato di farmi perdere quello che poi è diventato uno dei miei dischi preferiti dell’anno.

Ma come per Elizabeth Bennet, che a causa dei suoi pregiudizi sembra lasciarsi sfuggire l’amore (e, peggio ancora, un matrimonio estremamente vantaggioso) ma alla fine riesce a sposare Mr. Darcy, anche la mia è una storia a lieto fine. Un po’ meno, però: io per vivere dovrò continuare a lavorare.

La prima volta che ho sentito parlare di Furesta era marzo, in occasione di uno showcase di presentazione, organizzato nel mio negozio di dischi preferito. Da degna rappresentante della filosofia asocial, abbracciata più per timidezza che per disprezzo dell’umanità, l’idea di presenziare non mi sfiorò neppure. Inoltre, essendo profondamente esterofila da un punto di vista musicale e il disco italiano (o quasi), neanche mi preoccupai di ascoltarlo.

In seguito, intravidi distrattamente un piccolissimo estratto di quello show acustico e ne ricavai una piacevole sensazione. Mi aveva infatti fatto pensare alla Nuova Compagnia di Canto Popolare, per me musica d’infanzia, essendo quelli degli NCCP tra i pochi dischi belli della collezione dei miei. Ma quello che mi incuriosì fu che poco dopo, proprio tra queste pagine, lessi un commento, forse di Zion, in cui citava una canzone di La Niña come esempio intelligente di utilizzo dell’autotune.

Un attimo! Che c'entra la rilettura della musica tradizionale napoletana con l’autotune?

Allora commisi l’errore più grosso: invece di ascoltarlo, cercai recensioni online. Quello fu quasi il punto di non ritorno. Tra i primi risultati comparvero Vogue e Cosmopolitan.

Ora, più che l’asocialità o l’esterofilia, il mio maggior difetto di ascoltatrice è che sono, come qualcuno ama(va) ripetermi, tremendamente snob. Che il disco fosse stato oggetto di attenzione della stampa generalista, per di più di riviste femminili, mi spaventò oltremodo: nella mia mente fu subito derubricato a “musica da parrucchiere”, dove è noto che si ascolta musica orribile. Infatti, non ci vado mai.

Tutto ciò mi tenne lontana dall’ascolto almeno per un buon mese. Poi, complice un intenso periodo di lavoro, che mi costrinse a tenermi poco aggiornata sulle nuove uscite e al contempo a viaggiare spesso sola in auto, non sapendo proprio cosa metter su, mi venne in mente che il famoso Furesta, alla fine, non lo avevo mai ascoltato. Una sorta di “più che l'onor poté il digiuno” (citando a sproposito un Dante De Andrecizzato), benché sarebbe più adatto un “più del pregiudizio poté la noia”, di cui però non ho trovato precedenti.

Fu un colpo di fulmine.

Come non essere conquistati da un album che si apre con quell’inno alla vitalità che è Zì Viola (campionata in Guapparìa) e si conclude con una ninnananna dove le gazze ti invitano a non preoccuparti mentre un motivetto al clavicembalo, sempre più veloce, si spegne in battiti d’ali (Pica Pica)? Un incantevole mondo sospeso tra passato e presente, pieno di inventiva, dove si suona anche con zoccoli ('O ballo d’’e ‘mpennate) o capelli (Tremm'), un piccolo bestiario pieno di gatti, uccelli, serpenti, topi. Brani ispirati a musiche antiche si accompagnano ad effetti e suoni elettronici, e i sintetizzatori si alternano ai mandolini e alle tammorre. La chitarra battente e il sisco (strumento a fiato tradizionale simile a un piffero) riaffermano la provenienza campana, ma il kemenche (strumento mediorientale ad arco) allarga lo sguardo a Grecia e Turchia e le nacchere sottolineano il legame tra sud Italia e Spagna.

La Niña, ovvero Carola Moccia, e Alfredo Maddaluno, che con lei ha scritto, suonato e prodotto il disco, provengono dall’elettronica, ma con il progetto La Niña (qui al secondo album) hanno deciso di coniugare queste esperienze di modernità con una forte componente tradizionale, quella campana in primis ma che abbraccia tutto il Mediterraneo. Una continuità testimoniata anche linguisticamente: accanto al napoletano, appaiono il francese, nella collaborazione con l’artista franco-iraniana KUKII (Tremm’), e l’arabo, nel brano con l’artista egiziano Abdullah Miniawy(Sanghe).

Furesta è un disco percussivo e corale, che tocca corde profonde, ataviche. Un album ricco, che qualcuno ha definito barocco, stratificato, frutto di studio, di ricerca, quasi di scavo. Un’opera piena di riferimenti, ma anche immediata, passionale, fortemente popolare. Una stratificazione ben rappresentata dai ringraziamenti dove ritroviamo, tutti insieme, Roberto Murolo, Il Maestro Roberto De Simone, Scarlatti, Cimarosa, Tonino ‘O Stocco & Rafilina (quest’ultimi proprietari di un negozio di tamburi).

Due elementi, però, hanno principalmente plasmato il mio modo di "sentire" Furesta, facendo sì che si connettesse a quella che sono, indipendentemente da ciò che vorrei essere.

Il primo è la lingua. Sebbene la produzione moderna nel mio dialetto sia ampia, raramente ascolto (volontariamente) musica partenopea dei nostri giorni, ma in questo caso l’uso del napoletano ha giocato un ruolo fondamentale. Perché se ho ancora dubbi sul fatto che sia stato o meno il mio disco dell'anno, sono certa che è quello che è stato cantato con più trasporto (di solito, nell'intimità dell'abitacolo della mia Lancia Y). Sarà perché nessun “I miss you” o “I can’t live without you” riesce ad ispirarmi la stessa straziante nostalgia di un "Senza e te nun me fido 'e sta" (Ahi!), o che ognuno di noi può trovare una voce diversa a seconda della lingua che usa. Curiosamente, anche Carola ha svelato in un’intervista che la sua voce non le piaceva e che ne ha scoperto le potenzialità solo dopo aver cominciato a cantare in dialetto. Come se il linguaggio le avesse fatto scoprire una musicalità prima ignota. Io resto stonata come una campana, ma per capire che Carola ha una voce bellissima basta ascoltare Chiena ‘e scippe.

Il secondo elemento, è che, sì, Furesta è un album profondamente femminile. Non una femminilità patinata, bensì forte, selvatica: furesta, appunto. Molto del successo presso la stampa di genere si deve probabilmente a Figlia d’’a Tempesta, un inno prêt-à-porter per ogni manifestazione femminista. Nonostante un filino di retorica (ma che inno sarebbe altrimenti?), adoro quella “Arraggia ca’ nunn’ arreposa”, e quanto sarebbe bello se a quel “Paura 'e nie', Paura 'e nie' /paura 'e nient'" si potesse credere mentre lo si intona. Soprattutto, devo confessarvi, non senza un certo imbarazzo per la mia poco orginale fonte di emotività, che qualcosa mi si spezza dentro ogni volta che il coro grida “Pe’ ‘e sore ca’ ce' ate luat’ ca nun so’ turnat’/nun l'amm scurdat’, nun l'amm scurdat’”.

In ultimo, e non è poco, questo disco è riuscito a illudermi di avere gusti “giovani”. Una delle mie canzoni preferite, che mi ha conquistata con la poesia di una minaccia come “Primma ca t'accire/T'aggia mparà a campà” (Oinè), è quasi tutta in autotune. Neanche fossi una quindicenne! Poco importa se la canzone affonda in radici antiche e tocca un tema così remoto da essere un archetipo, come la difesa ferina del proprio giardino. Un’arte che, invero, sarebbe bene padroneggiare già a quindici anni.

Che siate o meno donne di mezz’età napoletane musicalmente snob, in cerca di radici o illusioni di giovinezza, credo che questo disco valga un ascolto, potrebbe stupirvi e soprattutto piacervi più di quanto immaginiate.

Quanto alla personale lezione che ho tratto da questa storia, si può riassumere così: pur consapevoli delle tante cose che non vanno in noi, ogni giorno è possibile fare nuove, sconcertanti scoperte sul nostro conto.

Ad esempio, di me tutto avrei detto, tranne che ero il tipo di donna che segue i consigli di Vogue.

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