E finalmente:

vedere quello che vedo,

sentire quello che sento,

pensare quello che penso,

immaginare quello che immagino,

volere quello che voglio.

Perché non immergermi nel nuovo album di Lael Neale, che comincia come quello vecchio? Il terzo Sub Pop?

L’ho appena sentito. La ragazza della piccola fattoria della Virginia e di Los Angeles è tornata. Lei con lei: Lael. Tutta “sola” (con Guy Blackeslee): con sé, in sé. Tutta qui, adesso: blu fondo di zaffiro. Questo è il suo periodo.

Un album senza la necessità di esserlo. Come tutti quelli di oggi, ma un po’ più. Una raccolta di canzoni fragili ed evocative. Indie-low fi e pop-rock, quasi niente folk: come illudersi di percorrere una strada, rimanendo fermi agli angoli. A sbirciarsi; una coppia di solitari titubanti che non si mettono in cammino. Sdoppiati nella loro solitudine. Doppiamente soli nella loro distanza. Ecco: canzoni doppiamente solitarie. Due punti di vista dentro ogni brano. Entrambi parziali. Non c’è delusione, non c’è allegria, non c’è equilibrio, non c’è passività. C'è una tensione latente. Sarà che sei concentrata/o in un momento della tua vita e, da lì, tutto è possibile, Allora tutto è logicamente impossibile. Quindi la logica non funziona a dovere. Serve altro per uscire. Non sai cosa, ma senti che c’è un mare in cui immergerti e cominciare a nuotare («Ma non era l’album di King Hannah?» «Sì, ma stavolta non centra!»).

Allora questa raccolta di canzoni fragili ed evocative, di indie pop-rock, è a un passo dalla libertà. E, come ricerca di libertà artistica, come frutto di una contrazione esistenziale, va apprezzata. È logico che gli sforzi di un altro, per noi, contino meno. Per carità, può non piacere. Deve non piacere, in un certo senso. Ma Leal è sincera. È questo che mi frega, al momento, con lei. E appassiona. Leal, la quarantaquattrenne cantautrice che fa indie rock con l’omnichord e i nastri, la drum machine e il vibrato di chitarra (“la zuppa”), in uno stile acquerugiola e gallette di riso (“il pan bagnato”). Entrambi le cose, perché Altogheter Stranger è lo straniero che ognuno di noi è: che ognuno ha fuori e dentro di sé.

Così Lael dice, da sé a sé:

Vedo quello che vedo,

sento quello che sento,

Penso quello che penso,

Immagino quello che immagino,

Voglio quello che voglio.

È pronta a muoversi, ma non ha ancora fatto un passo.

E dall’angolo semibuio della strada, come altri, brama nelle canzoni la purezza di un disegno di libertà.

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