"Tarots and the North" (dodici scritti abbinati ciascuno ad un Arcano Maggiore di Luis Royo)
"VII. The Devil"
Osservandola nel suo complesso la carriera dei Landberk sembra il risultato di un patto col diavolo; un contratto occulto garante di gloria imperitura al prezzo dell'anima stessa di una band spirata nel 1996, ma lasciatasi artisticamente morire già l'indomani della pubblicazione di "Riktigt Äkta", gioiello grezzo e purissimo di una miniera che avrebbe segnato la riapertura definitiva della corsa all'oro progressivo, ancora oggi estratto regolarmente, con risultati a volte sbalorditivi. I cinque svedesi vengono infatti annoverati tra i restauratori del genere, nonostante, in quantità come in qualità, non siano all'altezza dei cugini Änglagård e Anekdoten.
Affermo questo ben consapevole delle sole due fatiche dei primi e del sostanziale calo dei secondi, ma ciò non toglie che gli ultimi sedicenti membri della cosiddetta triade di Svezia, non abbiano nelle loro maniche un vero e proprio asso da sfruttare, rimanendo piuttosto bloccati al livello di "Vemod", promettente ma ancora incerto preludio ad impeti costretti, nel presente caso, a rimanere inespressi e anzi a recedere nell'ambiguo "One Man Tells Another", ultimo stadio di un processo che priverà il formidabile chitarrista Reine Fiske di ogni ambizione progressiva, abbandonandosi al rock tiepido di "Indian Summer", per poi fuggire attraverso il trip-hop d'atmosfera dei Paatos e stabilirsi infine nei lidi psichedelici dei Dungen.
Tale scoraggiante storia non deve comunque eclissare i meriti di un debutto tra i più suggestivi degli anni novanta, intriso di un'ansia esasperata, efficacemente trasmessa dalle marce funeree del mellotron di Simon Nordberg ("I Nattens Timma") e dalle suppliche di Patric Helje, la cui voce debole e lamentosa sembra una richiesta d'aiuto originatasi nei recessi di un ambiente ostile e soffocante ("Trädet"), dal quale non riesce a riemergere neppure il basso di Stefan Dimle, malgrado la determinazione delle sue corse paranoiche ("Skogsrået").
La chitarra, dopo avere a lungo vagato tra gli alberi di fredde foreste notturne, rompe in un pianto colmo di amarezza ("Vår Häll"), tanto affine a quella dei lucreziani versi del "De Rerum Natura", da sentirli quasi riecheggiare nel silenzio: «Potrei non sapere del mondo le origini, ma dai segni del cielo e da molte cose create io sono certo che il mondo non è fatto per noi: tanto esso è fonte di male». E paradossalmente è quando si estinguono i gemiti del cantante e i superflui ritmi della pavida batteria di Andreas Dahlbäck, assoggettata ai vaneggiamenti post-rock degli altri strumenti ("Undrar Om Ni Ser"), che il disco finalmente urla. Un grido muto e appunto per questo immensamente più drammatico, esalato dal semplice riverbero delle corde pizzicate della chitarra, in un'apoteosi d'insopprimibile angoscia, gemella acustica della celeberrima tela di Edvard Munch ("Visa Från Kallsedet").
Il 1992, oltre l'esordio, vede la strategica uscita della sua controparte inglese; ma il cambio di lingua avrà effetti devastanti su quello stile tragico ed intimista, di cui "Lonely Land" non è altro che una pallida imitazione. Svanite sono le foreste e le solitudini agghiaccianti, rimangiate in blocco le condanne ai perversi disegni della natura, l'inappellabile "j'accuse" nei confronti di un'esistenza indifferente e spietata, attutito e livellato dall'impersonalità di una lingua straniera, imposta come regola di un gioco commerciale destinato a fallire. Quanto resta è la genuina agonia di "Riktigt Äkta", prematuro testamento di una band incapace, a dispetto dei pesanti compromessi, di sfuggire alla sua triste sorte, similmente a ciò che le fonti tramandano del poeta Lucrezio, impazzito dopo l'ingestione di un filtro d'amore e morto suicida a quarantaquattro anni, non prima però di aver composto il suo travolgente poema, dove, in seno a un dilagante pessimismo esistenzialista, si radica un ostinato barlume di speranza.
«...E come i fanciulli vedon di notte atterriti nel vuoto dell'ombra fantasmi di gelide ali e ne fingono altri in cammino per l'aria, così nella luce tremano gli uomini di cose più esigue dell'ombre. Né valgono i raggi del sole a sperder le tenebre e questo terrore dell'animo, ma solo lo studio del vero, ma solo la luce della ragione».
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