Introduzione:

Meglio di così non si sarebbe potuto fare. I tre gloriosi anzianotti superstiti e il maturo figlio del compianto batterista titolare del Dirigibile si prepararono bene e performarono al meglio possibile in questa rentrée una tantum tenutasi oltre dieci anni fa presso la londinese O2 Arena. Questo compatibilmente con le corde vocali deteriorate dell’allora cinquantanovenne Plant, la moderata artrite di Page a quel tempo quasi sessantaquattrenne, l’umana irraggiungibilità del padre John per il pur detonante Jason Bonham che all’epoca aveva passato i quarantuno, e… basta così, perché sul pressoché sessantaduenne Jones di quel periodo non può essere evidenziato alcun acciacco o qualsivoglia decadenza.

Contesto:

Ameth Erthegun, il boss dell’etichetta discografica Atlantic che nel 1968 aveva istantaneamente creduto in loro e fatto la loro fortuna, era passato a miglior vita l’anno prima: dedicargli un concerto di tributo fu quindi la buona, ottima ragione per una riunione così impegnativa e importante. Già in passato la band aveva fatto un paio di (raccogliticci) strappi a quel rompete le righe che si erano assennatamente imposti all’indomani della sciagurata morte di Bonhanima, e sempre a favore di eventi eccezionali (il megaconcerto americano del Live Aid nel 1985, i quarant’anni della etichetta Atlantic nel 1988), ma in quest'occasione il nobile desiderio di celebrare una persona importante e stimata fu adeguatamente accompagnato da convinzione, suono, potenza, concentrazione, organizzazione, stato di forma adeguati all’immensa qualità del repertorio da riproporre.

Punti di forza e lacune:

Il suono Led Zeppelin che fuoriesce dal potente impianto di amplificazione è quello, inalterato nel tempo, superbo: basso profondo, batteria cannoneggiante, chitarra né pulita né troppo distorta, tutt’altro che precisa a rischio poi di essere esangue, ma non incerta. La chitarra di Page è… troppo giusta: questo musicista ha sempre avuto stile, suono, anima perfetti per la musica che ha inteso di creare nei suoi fecondi anni giovanili. Dotato di tecnica buona ma non trascendentale, di agilità nella norma a livello professionale, ciò che lo ha reso immensamente peculiare è quel mix di impagabile senso del brano e delle sue dinamiche di arrangiamento. E’ proprio un chitarrista-produttore, si autoproduce mentre suona riuscendo ad essere spontaneo mentre ha tutto sotto controllo: un talento nato.

In ottima forma allora questo Page ultrasessantenne, tornato magrolino e quindi in peso forma, anche se non più con l’agilità di gioventù che gli consentiva plastiche contorsioni sul palco ovviamente, dopo diversi anni trascorsi sovrappeso (vedere al proposito i concerti di fine millennio coi Black Crowes). Senza troppi fronzoli egli manovra le sue Gibson, Gretsch per la tecnica slide, Danelectro per la strana accordatura necessaria a “Kashmir”, suonando tutto quello che c’è da suonare, magari un filo meno pirotecnico di una volta ma sempre ficcante ed efficace.

John Paul Jones come già accennato non ha perso un’oncia di squisitezza musicale con l’età. Come tutti i gregarioni è invecchiato assai meglio, e di meno, delle prime donne godenti i suoi servigi: spettacolo zero sostanza mille; i suoi giri di basso e le sue tastiere sono impeccabili e portanti.

Jason Bonham è di per sé un grande batterista hard rock, anche se ce ne sono parecchi altri bravi quanto lui. Messo qui alla prova nel concerto della vita nei panni del mitico suo padre, perso all’età di soli dodici anni, se la cava al meglio prendendo a sberle il suo kit come non ci fosse un domani (e infatti non ci sarà, essendo questa kermesse un una tantum), avendo preparato meticolosamente ciò che deve essere suonato ovvero le esatte partiture di suo padre che del resto conosce e suona sin dall’infanzia. Alla fine ci fa un gran figurone e il pubblico si spella le mani anche per lui, bello tonico dopo due ore e più di grandi manovre all’artiglieria pesante del Dirigibile.

Il punto debole evidente del disco è la già accennata voce sfibrata, depotenziata, privata di falsetto di Plant. Indispensabile alla causa, ovvero alla questione focale che debba ancora essere accreditabile ai Led Zeppelin una simile produzione, il vecchio leone viaggia con mestiere attraverso le impegnative partiture vocali da lui stesso concepite in gioventù, spesso ripiegando su tonalità inferiori, altre volte togliendosi subito dalla nota alta invece di spingerla fino in fondo, episodicamente costringendo il gruppo ad abbassare la tonalità originale di un brano, saltuariamente facendo cantare l’estasiato pubblico… insomma riuscendo a salvare le chiappe e portare dignitosamente a casa la serata con l’insostituibile suo contributo. Ma è un fatto che non ce la faccia più a cantare il suo repertorio di tanti anni fa.

Siamo alla frutta anzi all’ammazza caffè, lui come tanti altri grandi urlatori rock di una volta come Daltrey, Gillan… ma chiaramente meglio questo Plant a mezzo servizio che un qualsiasi altro frontman anche in pieno vigore ed estensione vocale. E’ fatto certo infatti che, tra le numerose peculiarità del Dirigibile, lo stile e il timbro vocale siano fra le più importanti e basilari, e che già la mancanza forzata di Bonham padre scavi un buco enorme, una voragine… E così almeno nel suo caso è preservata la presenza, altrettanto irrinunciabile, del vocalist originale. Le sue corde vocali purtroppo non sono più capaci di spingere stupendamente, in alto e in avanti, le canzoni del repertorio, ma quanto meno le caratterizzano ancora, le rendono all’istante verosimili, plausibili, godibili, Zeppeliniane. Non c’è più il fiato di gioventù ma resta lo stile peculiare, sempre impagabile.

Vertici dell’album:

Sulle botte da orbi dell’ancor giovane e vigoroso batterista di famiglia, anch’egli ubriacone come il padre ma… redentosi per sua fortuna e salute, una sapida fetta del celebrato repertorio Zeppelin (sedici songs, pescate nell’ambito del poco meno di un centinaio di carriera) viene dispiegata per un ultimo passaggio dal vivo per la gioia delle ventimila persone astanti, e poi per tutti noi all’ascolto del disco doppio in questione.

Sorprende subito la scelta di “Good Times Bad Times” come prologo. Prima canzone del primo album, certo, quindi una specie di omaggio storico… Il fatto è che essa fu molto presto abbandonata dal gruppo nelle sue scalette live, appena pubblicato il secondo disco che ampliava ed impennava splendidamente il repertorio con episodi spettacolari e adescanti. La resa di questa pagina zeppeliniana alla O2 Arena è… corretta: è il primo brano ed i quattro musicisti devono ambientarsi e scaldarsi, l’episodio non è certamente fra i più riusciti della serata ma il suo ripescaggio emblematico ed inaspettato lo rende simbolicamente importante.

Discorso abbastanza simile per la seconda traccia “Ramble On”, per chi scrive fra le più fulgide gemme di carriera malgrado un inopinato, costante accantonamento nella storia concertistica della band. Quel giro di basso lungo ed articolato, quell’indugiante e quieto sferragliare di chitarra a tutto braccio nelle strofe per poi alzare al massimo il volume e picchiare a tutta coi bicordi nei ritornelli (ed il basso ancora a tirare il carretto alla grandissima, con punch e creatività impareggiabili), sono a mio gusto uno dei vertici assoluti dei nostri in quanto a dinamica, personalità, schiumante strapotenza. Un piacere cogliere questo tardivo, conclusivo omaggio dal vivo di questa perla, giocoforza benvenuto ed emozionante al massimo.

“In My Time of Dying” è micidiale. Plant ci “arriva” bene perché fa parte della seconda fase di carriera, quella meno urlata, e vi gigioneggia da par suo intanto che i riflettori illuminano principalmente la strascicata, polverosa performance di Page alla slide guitar su di una magnifica Gretsch White Falcon bianca. Inestimabile la resa del terzetto di strumentisti nell’estesa, spumeggiante fase strumentale: guidati dall’attentissimo e preciso Bonham alle prese con le numerose battute dispari previste in partitura, il trio stacca all’unisono tutta la sequela di riff lancinanti e trascinantissimi, i quali fanno sbrodolare questo numero fino ai suoi canonici dodici minuti scarsi, tutti meritati.

Nobody’s Fault But Mine” è un altro numero impegnativo ma adattissimo per la resa dal vivo, con tutti quei suoi stop&go scanditi da una batteria più che mai protagonista. Qui l’arte di Jimmy nel piegare il tempo al suo volere e mettere alla prova se stesso ed i suoi compagni su di un’esecuzione hard rock che necessita di rimanere scorrevole, animosa e decisa pur fra mille stranezze ritmiche, è al suo massimo. I quattro anzianotti non fanno una piega e, ben preparati e caldi, sparano i quasi sette minuti di questo contorto heavy blues senza un tentennamento.

Kashmir” è una macchina da guerra, probabilmente il vertice della serata. A un certo punto i tonfi implacabili di batteria, lo sferragliare ammaliante in staccato della Danelectro, le gonfie fanfare di sintetizzatore, l’orientaleggiante e serpentosa melodia vocale instaurano un’impressione di prestigio, inesorabilità, tracotanza ineguagliabili. E’ il rock al suo meglio, fragoroso e insinuante, destabilizzante e soddisfacente.

Il resto:

Black Dog” soffre un poco del confronto con l’originale sul quarto album in studio, vengono a mancare tutte quelle voci squillanti e aspre di Plant, la ricchezza cromatica dell’arrangiamento in studio.

For Your Life” è un episodio minore di “Presence” e del catalogo Zeppelin e tale rimane anche qui. Una scelta discutibile, a rappresentare il loro sesto album c’era già “Nobody’s…” fra l’altro.

Trampled Underfoot” è ottima, niente da dire. La resa di Page è encomiabile, considerando quanto tutto quello sferragliare funky hard sia ben… faticoso, alla sua età.

No Quarter” è… interminabile, oltre che mirabile. E’ il momento di John Paul Jones, nonché la celebrazione del lato oscuro degli Zepp, del suono di piano elettrico Fender Rhodes (qui però riprodotto da un sintetizzatore), del sapiente swing di Page sulla chitarra elettrica per una volta settata su suoni meno abrasivi e potenti.

Since I’ve Been Loving You” è IL blues, per eccellenza. Non esiste di meglio al mondo nel campo dei blues lenti ed atmosferici. La suprema performance su Led Zeppelin III è però irraggiungibile e non solo per i mezzi di Plant, che se la cava restando abbastanza abbottonato anche nell’ultima strofa altrimenti drammatica e spiritata, ma anche per le cannonate di John che non sono riproducibili da nessun altro picchiatore di pelli e piatti al mondo, compreso suo figlio Jason.

Dazed and Confused” è troppo giusta… mantenuta com’è per l’occasione sui tredici minuti, la lunghezza ideale. Non è più il tempo di “stirarla” fino agli oltre ventisei, come accadde nel 1973 con testimone l’album “The Song Remains the Same”, e tantomeno fino ai quaranta come accadeva nelle serate più ispirate e autoindulgenti. Page non esagera con l’archetto di violino, la parte centrale strumentale corale è ancora e sempre rigogliosa e trascinante.

Stairway to Heaven” è quella, che si può dire. Anche qui la versione affastellata in studio nel 1970 è nell’Empireo, inavvicinabile con le sue diverse chitarre, il trapestio geniale e squisito di John Bonham, la forza nella voce del giovane Plant. Neanche negli anni d’oro gli Zeppelin riuscivano a migliorarla sul palco, del resto.

Nella subito successiva “The Song Remains the Same” Page si lascia a tracolla la mitica Gibson doppio manico e snocciola l’articolato tour de force alla dodici corde che caratterizza il pezzo. Quando è il turno di Plant di cantare, resta quella sensazione di inadeguatezza: questo numero doveva rimanere strumentale, fanfara d’apertura al quinto album… Page non avrebbe dovuto darla vinta al suo cantante! E’ il momento meno riuscito della serata.

Misty Mountain Hop” è assai estesa rispetto all’originale che apriva la seconda facciata dell’epocale Zoso, Untitled… o come diavolo può essere appellato il loro quarto album. Bellina, ma avrei preferito altra cernita dal copioso elenco di capolavori del quartetto.

Ecco… gli inserti rock’n’roll d’epoca a distendere oltre misura la storica “Whole Lotta Love” non mi sono mai piaciuti. La band li prese in considerazione penso per “allungare il brodo” quando il repertorio era ancor limitato, ma poi non li ha mai più omessi. Secondo me sbagliando: “Whole…” è un’insuperabile scheggia di hard rock psichedelico, quattro minuti lanciati nel cosmo senza riprendere fiato, senza fare prigionieri, col testo più istintivo e insulso di tutti i tempi ma chissenefrega. La resa del brano anche in quest’occasione dura i soliti tanti, troppi minuti (nove) e a mio giudizio le variazioni centrali fanno perdere quell’alea pericolosa, testosteronica, urgente, aggressiva a quest’impareggiabile bellezza rock targata 1969. Amen.

Rock’n’Roll” è il secondo ed ultimo bis dopo “…Lotta Love” ed è giusto così, certe canzoni sono nate per aprire o per chiudere, non per stare nel mezzo. Page qui è grandissimo e saltella fra le molte partiture di chitarra ideate e registrate nell’originale in studio, assicurando pieni strumentali e “tiro” a iosa. Un bell’addio… e se avessero voluto andare avanti quella sera la gente non si sarebbe spostata di un metro neanche al decimo bis, vabbè.

Giudizio finale:

Quasi centoventi minuti di musica Zeppeliniana, per l’ultima volta ripresa in concerto. Per forza di cose la si deve piazzare fra i migliori lasciti dal vivo del super gruppo britannico, sicuramente il migliore come suono e registrazione (siamo nel 2008 e la tecnologia è bene andata avanti rispetto alla stagione settantiana del gruppo). Non può d’altro canto rivaleggiare con “cuginetti” come “How the West Was Won” (album del 2003, registrazioni risalenti al 1972) e “BBC Sessions” (del 1997, registrazioni dal 1969 al 1975) soprattutto perché lì il giovane Plant pompava come una sirena, senza freni, liberando (e giocandosi, in pochi anni) le corde vocali oltre ogni limite. E poi c’era John Bonham in sala motori, la macchina del ritmo dalla quale ogni bassista e chitarrista rock che si rispettino sognano di essere accompagnati.

Massimo dei voti, of course. C’è anche il film, il dvd, quello che si vuole per gustare l’evento.

Sono stato spinto a scrivere queste cose dall’unica recensione in proposito già presente sul sito, massimamente sciocca, irriguardosa e ignorante.

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