Maledette, maledette aspettative! Sempre a riempirmi di tensione, sempre a creare false speranze, sempre a diluire i bei momenti in un mare di apprensione. Quelle degli altri, poi, mi spaventano e mi bloccano a livelli patologici, richiudendomi nella mia “fortezza profonda e misteriosa” a tripla mandata. Maledette!

Eppure cosa succede quando le aspettative non solo vengono rispettate, ma ampiamente superate e dimenticate? La risposta, forse, in questo concerto, l'ultimo della tournée europea di Leonard Cohen di quest'anno, intitolata “Old Ideas”.

La prima aspettativa viene meno già qualche minuto prima del concerto, con un Pavilhão Atlântico pieno contro ogni previsione. Al momento della chiusura delle vendite online, infatti, il concerto era ben lontano dal sold out. La sala, però, è brulicante di gente che chiacchiera in portoghese, in spagnolo, in inglese e il pubblico è variegato anche dal punto di vista dell'età: alla mia sinistra, ad esempio, c'è un'inglese che potrebbe essere mia madre, alla mia destra un tizio di nazionalità indefinita che avrà l'età di mio nonno, io, ventiduenne, nel mezzo. E non ero l'unica, benché non mi aspettassi una grande affluenza di giovani, considerata l'età del protagonista della serata.

Il concerto inizia col quarto d'ora accademico d'ordinanza: sul palco salgono gli ormai più che rodati (ed elegantissimi) musicisti che accompagnano Cohen. La band è quasi identica a quella dei tour del 2008 e 2010, a parte il violinista Alexandru Bublitchi, entrato al posto del sax di Dino Soldo, e il chitarrista Mitch Watkins a sostituire Bob Metzger. Anche la scenografia di luci che trasforma la band in ombre tra un brano e l’altro è praticamente identica a quella usata due anni fa. E se fosse un concerto-fotocopia di quelli già visti nel tour precedente? Pensandoci, il rischio non è poi così ridotto: Cohen è anziano, dal 2010 ad oggi ha visto la fine di un tour mondiale, la pubblicazione di un nuovo disco, la preparazione di un’altra tournée. Ci saranno stati abbastanza tempo ed energie per creare qualcosa di nuovo? E poi quel titolo, “Old Ideas”, non è che faccia proprio sperare bene…

Le note di “Dance Me To The End Of Love”, ormai per tradizione in apertura di ogni concerto, sembrano rendere più tangibile quel timore. Ma basta poco per rendersi conto che è solo questione in scaletta, davvero. Il “lazy bastard living in a suit” che sale sul palco – accompagnato dalla prima standing ovation della serata – è sì lo stesso di due anni fa, sicuramente con qualche ruga in più, ma il suo fascino e la sua capacità di incantare il pubblico sono direttamente proporzionali alla sua età.

Nella setlist si mescolano in un amalgama perfetto brani scritti a partire dal 1967 (anno della pubblicazione di “Songs Of Leonard Cohen”) fino al 2012. Il pubblico freme, si lascia incantare e disorientare dalle parti strumentali che introducono alcuni dei brani, in particolare quelle eseguite con maestria da Javier Mas su oud e bandurria. Gli splendidi arrangiamenti livellano le notevoli differenze musicali tra i vari periodi della produzione di Cohen, senza sminuire o privare le canzoni della loro personalità. Anzi, a volte donando loro nuova vita, come nel caso di molti pezzi degli anni ’80, spesso appesantiti da elettronica ed effetti superflui. Ed è forse a questo che sono serviti gli ultimi anni di tour: a ridisegnare, levigare, cesellare e ripulire fino ad ottenere l’equilibrio perfetto.

Non mancano ovviamente i grandi classici: “Suzanne”, “Hallelujah”, la sensualissima “I'm Your Man”, “Tower Of Song”, “Bird On The Wire”, “The Partisan” (che, tanto per sfatare un mito, non è di Cohen) proposta in una versione notevole, brani che dimostrano quanto l’artista canadese sia entrato nell’immaginario del pubblico presente e non. Graditissime sorprese della serata sono l’intensa “Night Goes On”, “The Guests” (assente dai concerti di Cohen dal 1985) e una splendida versione di “Coming Back To You” regalata al pubblico dalle sublimi Webb Sisters.

La “voce d'oro” roca e invidiabile, le mani vecchie e nodose che stringono il microfono, qualche umana incertezza, i sorrisi e gli inchini rivolti al pubblico, l'immensa umiltà e il rispetto che Cohen mostra verso i musicisti che l'accompagnano sono il marchio indelebile della serata, l'umanità che colpisce al di là della musica in sé.

L’apice della serata è probabilmente il primo bis, “So Long, Marianne”, con un pubblico ormai in piedi sotto al palco e felice di cantare a squarciagola il ben noto ritornello. Io, ovviamente, ho dato volentieri il mio contributo. Il tutto si conclude a quasi quattro ore dall’apertura con l’appropriatissima “I Tried To Leave You” e una cover di “Save The Last Dance For Me” dei The Drifters, trentaduesima canzone della serata.

Le ultime parole di Cohen sono una benedizione per il suo pubblico, quel pubblico che ama e rispetta, davanti cui si inginocchia e si toglie il cappello più volte durante la serata. “May you be surrounded by friends and family, and if this is not your lot, may the blessings find you in your solitude”. Profondamente colpita (quasi commossa, lo ammetto), l’annoto frettolosamente su un block notes prima di uscire nella notte mite di Lisbona.

Per una volta senza traccia di delusione.

Carico i commenti... con calma