Un album che scava nelle profondità dell’animo umano, che si insinua nei meandri della psiche umana. Un uomo torturato dalle ansie esistenziali si mette a nudo attraverso otto brani uno più struggente e emotivo dell’altro. Leonard Cohen, nativo di Montreal, Canada, è uno di quei pochi cantautori che riescono a conquistare il cuore e la mente dell’ascoltatore, uno di quei pochi maestri del folk della generazione post-bellica che è riuscito ad interpretare il proprio malessere interiore e renderlo universale tramite la canonica forma canzone. Da abile chansonnier, Cohen è stato capace di conciliare musica e poesia in un mix incredibilmente vero e autentico, personale e mai banale, nonostante ciò di cui parla sia condiviso su vasta scala, nonostante ciò che dice sia ciò che molta gente vive. La forza del cantautore di origini ebraiche (di religione ebraica, poiché la madre in realtà era lituana e il padre polacco) sta nel tentare (e nel riuscire) di (a) esorcizzare il suo male intrinseco, regalando anche al mondo della toccante e pura poesia, mite e genuino lirismo.

Dopo l’esordio discografico che prende il nome di “Songs of Leonard Cohen”, super acclamato lavoro folk elevato a pietra miliare, e dopo un album sulla falsa riga del primo, Cohen pubblica, il 19 marzo del 1971, un long playing totalmente diverso: "Songs of Love and Hate". Una stupenda copertina in cui Leonard sorride su sfondo nero, come se volesse mettere in risalto il contrasto tra luce e ombra, e un retrocopertina che presenta una didascalia che dice “Loro hanno rinchiuso un uomo che voleva conquistare il mondo, gli stupidi, hanno rinchiuso l’uomo sbagliato” fanno da cornice a questo capolavoro della musica folk d’autore destinato all’immortalità “in saecula saeculorum”.

Cohen lascia poco spazio all’allegria: solo nel brano che chiude il lato A, “Diamonds in the Mine”, egli si concede alla goliardia canora accompagnato da un coro femminile. Eppure il testo della canzone in questione non lascia trapelare alcun segno di positività: attraverso un linguaggio crudo, lo chansonnier canadese indirizza una feroce critica a coloro che permettono l’aborto (i dottori), e a quelle madri che decidono di rinunciare al frutto del loro amplesso, o che in certi casi lasciano a degli uomini senza scrupoli, i loro virili compagni, il potere di eliminare il “figlio non nato”. I testi delle altre composizioni non sono da meno: dalla deprimente e monocorde “Avalanche”, una delle più belle creazioni musicali di Leonard, della quale Nick Cave, tredici anni dopo, farà una cover nel suo esordio discografico, “From Her To Eternity”, si passa alla malinconica “Famous Blue Raincoat” in cui l’autore parla del tradimento della sua donna per il fratello di lui (“E cosa posso dirti, fratello mio, mio assassino? Cosa potrei mai dirti? Suppongo che mi manchi, suppongo che ti perdono, sono lieto che tu abbia preso il mio posto. Se mai verrai qui, per Jane o per me il tuo nemico starà dormendo, e la sua donna sarà libera”). Per non parlare della attanagliante e angosciosa “Dress Rehearsal Rag”, e della serrafila dedicata alla figura eroica di Giovanna D’Arco (“Joan D’Arc”), citata anche in “Last Year’s Man”. Tolta “Love Calls You By Your Name” nell’album trova spazio anche un pezzo live (Isola di Wight, 31 agosto 1970), “Sing Another Song, Boys” che riesce ulteriormente a impressionare l’ascoltatore. Fabrizio De André, lo chansonnier di casa nostra, ha fatto di “Joan of Arc” e “Famous Blue Raincoat” delle cover: il primo titolo è tradotto letteralmente, il secondo muta in “La Famosa Volpe Blu” spostando l’attenzione sulla protagonista femminile.

“Songs of Love and Hate” rappresenta uno step decisivo nella carriera dell’artista canadese, un salto di qualità rispetto al passato. Da ascoltare una, due, infinite volte: non stanca mai. Un album da amare.

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