Jikan il silente, monaco tradito, abitatore dell’alba, si avvicina al suo amico Leonard e sussurra.

- Hineni, hineni.

Fuori è novembre. Questa notte un cantante dovrà morire perché la sua voce ha mentito. Questa notte si porterà via, finalmente, anche il dolore alla schiena.

Leonard sorride.

- Non sono pronto.

Novembre è un mese di merda e fa freddo.

Sarebbe bello essere al sole di Hydra o sul Mount Baldy.

Essere ancora con Roshi, il maestro che “fa la guerra al niente”, lui apprezzava ciò che Leonard gli cucinava e sapeva che Jikan era un pessimo allievo. Era piacevole stare lì, dove non servivano pettini, ma Kelley si era presa tutti i suoi soldi.

E non era per i soldi, né perché – un tempo – lei gli avesse parlato d’amore (l’amore, lo sai, è solo un’altra menzogna), non era neanche per le accuse e le minacce. E’ che Kelley gli portò via il silenzio.

Di nuovo a cantare, a scrivere, a camminare, a parlare. Di nuovo per la strada.

E di strada ne ha fatta tanta, il piccolo ebreo di Montréal: New York, Hydra, Parigi, il Chelsea Hotel, Los Angeles, Mount Baldy e nessun posto da chiamare casa. E incontri, e donne. Tante donne: Suzanne, Marianne, Janis, Rebecca, Judy e nessuna, nessuna di cui poter dire: “è mia”. E due romanzi, e poesie, e libri e poi la musica e i dischi, e mai – mai – poter dire: “sono io”.

Aveva incontrato presto la morte, a soli nove anni (quella di Nathan, suo padre), e, altrettanto presto, la depressione negli occhi di Masha, sua madre. Non fu mai povero, ma conobbe la mancanza.

Il vuoto. Puoi provare a colmarlo con fiumi di parole, puoi cercare la pace tra seni di donne, puoi cantare canzoni per cercare di compiacere il Signore, puoi cercare di essere libero come un verme sull’amo, puoi cercare il silenzio nella meditazione Zen. Ma il vuoto ti raggiunge sempre.

E allora ti rimetti in cammino. Perché “c’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che penetra la luce”.

Così, il vecchio ebreo di Montréal, il monaco silenzioso, ha ripreso la sua chitarra.

Ci ha raccontato ancora di terre dell’abbondanza e di giorni di gloria, di vecchie idee e di Templi da abbattere. E di Dio e dell’Amore, e di strade e di menzogne. Delle donne che sono state eccezionalmente gentili con chi ha parlato del loro mistero e che si chinano ancora sul suo letto e lo coprono, vecchio, come un bambino tremante, “guardami Leonard, guardami un’ultima volta”.

Noi che siamo brutti, siamo ossessionati dalla bellezza.

Insomma le solite cose. Insomma la vita.

Ma le cose non sono mai le stesse e la strada non è mai uguale.

E le strade non vanno da nessuna parte, però – prima o poi – finiscono. E in fondo a questa strada c’è il buio, c’è “You Want It Darker”.

Ed è un disco bellissimo. Un lungo arrivederci recitato con voce di cartavetrata. Il corpo è stanco, ma la voce è chiara e le parole sono ancora potenti. Lui ci lascia ancora vedere la sua bellezza spezzata, come farebbe per qualcuno che ama, ci passa ancora il desiderio attraverso la sua lingua. E il buio è squarciato da un bianco e nero abbagliante. E’ un disco essenziale.

E ti posso dire poco su “You Want It Darker”: come fai a parlare di un addio? Ci vuole tempo, il tempo allontana il pudore.

Preferisco immaginarmi Leonard con suo figlio Adam.

Ci lavorava da un anno a questo disco, Leonard, ma poi la fatica aveva preso il sopravvento e la salute era peggiorata, il progetto stava per essere abbandonato. Allora si è fatto avanti Adam.

Adam che ha cercato di seguire le orme di suo padre, Adam che, quando aveva 17 anni, fu coinvolto in un incidente stradale e rimase in coma e Leonard passava le sue giornate vicino a lui, parlandogli.

Adam prende una sedia ortopedica per placare i dolori alla schiena di Leonard, poi prende chitarre e strumenti, un magnifico microfono Neumann e si chiude nel salotto del padre. Lui e Patrick Leonard cesellano quelle piccole gemme incompiute, chiamano anche il coro della congregazione Shaar Hashomayim, il coro della sinagoga di famiglia, per la canzone che da’ il titolo all’album.

E così Leonard, il piccolo ebreo di Montréal, ha superato un altro pezzo di strada.

Però le strade non vanno da nessuna parte, ma – prima o poi – finiscono. E in fondo a questa strada c’è un pavimento, una caduta, due vertebre che si incrinano. E non le rimetti a posto due vertebre a 82 anni.

-Jikan?

-Hineni, hineni.

-Sono pronto. Ora sono pronto, Mio Signore.

Sincerely L. Lector

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