Un tragitto che giunge a metà del suo compimento, una realizzazione che a tratti diviene commovente quasi come gli archi che in apertura creano il giusto clima per calarsi nel sequel di “Lapsus” all’interno dell’arco narrativo previsto dal mastermind Alex “CF” Bradshaw (autore pure di tutti gli artwork della band), un vero genio, con idee forse radicali, ma precise, vive e pulsanti. A suo testimonianza vi sono i defunti Fall of Efrafa o l’altro side-project Momentum anch’esso giunto al termine. Perché sì, la caratteristica dei suoi progetti, che vanno ben oltre il semplice gruppo musicale, è proprio quella di avere una data di scadenza predefinita, già impostata all’incipt del percorso. Non differisce da tale destino la creatura Light Bearer strutturata su quattro lavori da portar a compimento nel futuro più o meno immediato, la cosiddetta “Æsahættr Tetralogy” e di cui “Silver Tongue” ne rappresenta il secondo capitolo. Un concept sviluppato destreggiandosi allegoricamente fra “Il Paradiso Perduto” di Milton, il libro della Genesi e la trilogia di Pullman “Queste Oscure Materie”, un racconto in cui la musica possa essere la protagonista, così da aiutare a materializzare il pensiero e la vena narrativa di Alex.

Trovare le parole per parlare di ciò che fluisce in una monolitica ora e venti di composizioni è impresa ardua, una sfida che mi costringe continuamente a dover cancellare e riscrivere verbi, aggettivi reputandoli insufficienti, non tanto per la mole di materiale a disposizione, ma quanto per l’emotività della proposta. In quanto si può sentire fra i chiaroscuri musicali il cuore e la passione che vengono messi nelle suite magistrali di Silver Tongue. Emergono senza alcun filtro la visceralità e l’energia vibrante di ogni rovinosa distorsione post metal. I britannici conoscono a menadito la carriera di Neurosis, Cult of Luna e compagnia bella, ma creano un qualcosa di unico. Vi è un’impronta stilistica che non troverete altrove. Un bilanciamento e connubio fra story-telling e soluzioni musicali che mostrano una personalità camaleontica di primissima qualità. Volete rimandi alla Godspeed You! Black Emperor ? Ce li avete. Intimismo post-rock ? Pure. Melodia rocciosa alla Envy ? Fatevi avanti, senza alcun timore. Dell’ipnotico drone ? Nessun problema. E così via. Si è sospesi in una malinconia eterea che connota apocalitticamente ogni frangente in cui ci si riesce a liberare dalla viscosità dell’urlato di Alex e che riveli l’animo più umano e fragile della proposta dei Light Bearer. L’aurea soffusa dei violini, i delicati sussulti di pianoforte, l’epicità dei fiati sviluppano un contraltare armoniosamente disilluso alla gravità espressa dalle cadenze atroci e spigolose che animano le sezioni più veementi dell’intero platter. Ma il quid vincente è proprio l’atmosfera. Gli scorci e gli orizzonti che si aprono maestosi o che in alcuni casi, vedi “Matriarch”, rapiscono completamente la scena, sono di una ricercatezza disarmante e hanno un sapore trascendentale, che fa staccare completamente dalla ruvidità degli istanti più concitati. Il tutto è realizzato con i giusti tempi, per poter concentrare le escalation post hardcore in un equilibrio dialettico fra sonorità drammatiche.

Non si può non leggere e non cercare di comprendere il messaggio che trasparisce dai lunghi testi partoriti dalla mente di Alex. Non si può. Si toglierebbe del valore, la proposta rimarrebbe incompleta e così ci si deve immergere nella prospettiva prescelta per questo “Silver Tongue”. Quella del Peccato Originale, dell’ascesa di Lucifero e della figura di Eva, con tutto un percorso che possa avere contatti e connessioni metaforiche con il mondo e la società contemporanea, da saper leggere oltre al mero significato testuale. È un simbolismo che permea drasticamente lo sviluppo dell’angosciante rilettura e rielaborazione personale, in un abisso profondo, quello in cui sembra cadere l’umanità. La crudeltà dell’oppressione dei Falsi Miti che minacciano costantemente l’integrità di ogni individuo, l’ambiguità della parola e tutto ciò che possa comportare se proferita in un mondo cieco, incapace di vedere realmente. E si ritorna al Portatore di Luce, per l’appunto, il Falso Dio che inganna, mistifica e promette creando false speranze e rassicurazioni. Insomma, condivisibile o meno, questo è quello che troverete nella spina dorsale che sorregge “Silver Tongue”, il tutto proposto nel modo meno superficiale possibile e con venature antropologiche manco troppo nascoste fra le righe. Uno scenario intricato e doloroso che si costruisce passo dopo passo appena scoccano i rintocchi di “Beautiful Is This Burden”, la quale s’insinua lentamente e farà deflagrare in uno stream of consciousness il resto della storia. Il finale ? Non ci è dato saperlo. L'epopea non si chiude sulla titletrack finale, veniamo rimandati a “Magisterium”, il terzo capitolo che ci mostrerà un ulteriore sviluppo della vicenda, prima che “Lattermost Sword” farà calare definitivamente il sipario sui Light Bearer.

Prendetevi il vostro tempo per capirlo, perché tutto ciò non è di facile assimilazione, ci vuole il giusto dosaggio. Non siate ingordi, godetevelo come se ogni brano sia un piccolo tassello di un mosaico più grande (ed effettivamente lo è). L’irrefrenabile voglia che Alex & Co. con la sempre presente etica DIY creino il prima possibile il seguito sarà a livelli altissimi, ma per ora vi tocca accontentarvi e godervi una delle migliori realtà che il panorama post-whatever possa avere.

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