Lobby Loyde: classe 1941, ci ha lasciati nel 2007 per un cancro ai polmoni.

Chitarrista e cantautore rock australiano, si è fatto le ossa nei Purple Hearts e nei Wild Cherries durante gli anni 60.

Ma è nei settanta che diventa leggendario: prima chitarrista nel gruppo pub-rock Billy Thorpe and the Aztecs, poi nei Coloured Balls, nei quali si metterà definitamente in luce con il tour de force chitarristico di blues hard-rock psichedelico della durata di 15 minuti “God”. Latiterà anche per un breve periodo nei Rose Tattoo, prima di mettere su una band e dedicarsi alla carriera solista.

Angry Anderson, cantante dei Rose Tattoo, lo ricorderà così:

Più di chiunque altro, Lobby ha contribuito a creare il sound chitarristico australiano, ben prima di Angus Young, Billy Thorpe, The Angels, o i Rose Tattoo. Più di chiunque altro, Lobby ha inspirato i gruppi rock australiani, li ha spinti a compiere un passo avanti e suonare in maniera tanto forte e aggressiva quanto potevano. La gente sta ancora cercando di copiarlo, al giorno d’oggi.”

Non stupisce dunque che questo suo secondo album solista, “Obsecration”, dato alle stampe nel 1976, sia una vera e propria rivelazione, che viene accolta entusiasticamente sia dalla critica che dal pubblico.

Coi suoi diciassette minuti Obsecrations Part A to D sgorga dagli squarci del sogno come un pus venefico da una ferita purulenta, sfoderando un poderoso riff hard-rock di chitarra.

Col procedere del brano, Il sound si delinea in maniera tanto fulminea quanto fulminante.

Corposo e portentoso, la sua pasta è l’incrostazione, strato dopo strato, di un sudiciume talmente antico da essersi ormai fuso con la pelle, aderendovi come una muta.

Alle fetide zaffate animalesche che scaturiscono dalla chitarra si accompagnano così gli ululati rock’n’roll emessi dal cantante: un lupo mannaro stralunato da litri di whiskey distillato in casa e tracannato a gargarozzo in torbide notti di luna piena.

Sono berci lerci, conati sconnessi da scaricatore di porto: la voce è arrochita dal fumo e la canottiera, ormai ingiallita, è incollata alla schiena.

Sudando lascivia da ogni poro, l’abbaio è accompagnato dallo strimpello di una tastiera progressive e dal muggito prepotente di un sassofono.

Un assolo di chitarra gimmipeiggiano irrompe a metà del pezzo, snodandosi sinuoso lungo i tortuosi percorsi del labirinto sonoro.

La sua primordialità galvanizza il corpo, spingendo ogni muscolo a tenere il tempo fino al caracollo psicofisico.

Quietatosi lo spasmo energico dell’animale rabbioso, l’atmosfera si fa solare e rilassata, e la chitarra disegna distratta una melodia lisergica.

Sono le ultime gocce di sangue stillate da un sole morente.

Colano come lacrime tingendo le onde prima che l’astro sprofondi nell’oblio dell’oceano.

Nella canzone interamente strumentale A rumble with seven parts and a lap dissolve gli effluvi blues emanati dalla chitarra abrasiva ci avvolgono in spire di fumo.

I due minuti della scalmanata danza strumentale A rock’n’roll Sunset riesumano il cadavere di Jerry Lee Lewis e di Chuck Berry.

Goin’ to Louisiana è un blues rock fragrante che affonda le sue radici nel fertile terreno della primordiale musica nera di New Orleans. I latrati canini di blues psichedelico inzaccherato di sugna sono trasportati oltreoceano, e riecheggiano nel silenzio palpitante che ammanta i canyon australiani. L’aria è umida e nauseabonda, satura di traspirazioni degenerate in miasmi pulviscolari.

Ma è Dreamtide il capolavoro del disco: una ballata soul rock immacolata e, al tempo stesso, dalla natura profondamente venale… trascendente, eppure estremamente carnale.

Un pupazzo di fango sciacquato via da sferzate di pioggia cristallina, fino a denudare il grezzo cristallo che risplende sotto la fanghiglia.

I suoi quindici minuti di durata sono tutti un lieve arrotolarsi e srotolarsi di strati strumentali, di promesse sospirate stesi sui prati… e mantenute solo a metà.

La musica ci trasporta così in stagni dai giunchi fosforescenti, ci culla delicatamente con lo strimpellio di una chitarra acustica dal retrogusto campagnolo. E’ un’altalena sulla quale è possibile intravvedere scorci di campi sterminati, dove le note sono perle di rugiada mattutina tremolanti di vita, che gocciolano dalle ali stesse del vento.

E’ un sortilegio che poco si adatta ai soffocanti paesaggi di polverose rocce color sangue che vibrano nella calura dei canyon australiani; rimanda piuttosto alle lame di luce che bagnano le soffici colline dell’Irlanda di Van Morrison, sventrando il cielo screziato da nuvole color piombo.

Durante l’idillio un sassofono assopito mugola a intermittenza lamenti strazianti; la chitarra elettrica cinguetta effervescente, implodendo in mille echi multicolori; il piano vagheggia innamorato, tratteggiando ideogrammi essenziali.

Sono suoni che si diffondono nell’aria come fiori sospinti dall’alito del vento in un tronco cavo.

Piantati in questo humus strumentale tanto umido quanto fertile, i versi del cantante germogliano, erompendo dalle viscere; la passione amorosa (I know my love is real) è vomitata dallo stomaco in un continuo girotondo che si ripropone ciclicamente, secondo dopo secondo.

Si tratta di strofe tanto struggenti quanto solenni, il tuorlo del fiore a cui è cucita la corolla strumentale. Sono l’impasto stesso del sogno che galleggia nella placenta dell’universo.

Nell’eco della chitarra avvampa tra le braci morenti la fiamma di Eddie Hazel.

I tempi accelerano, mentre gli uomini affrettano il passo. Vogliono catturare il tempo per imprigionarlo in una clessidra, da posizionare sul comodino, per passare la vita a contarne i granelli.

Con il rincorrere dello zenith, dal soul-rock si passa al rock duro, in un susseguirsi frenetico e spasmodico.

La batteria scalpita farneticante, la chitarra geme all’avvicinarsi del tanto agognato culmine, crepitando acidula mentre il rogo divampa.

Il cuore di carta del cantante brucia tra le vampate del fuoco chitarristico, che zampillano arroventando prima e incenerendo poi la clessidra.

Il sassofono strilla lamenti sconnessi, ubriaco di passione; cori zozzi di contadini neri cadenzano il ritmo.

La musica ha divorato il tempo.

Carico i commenti... con calma