C’è questo scatto di Margaret Bourke-White dal titolo “Hats in the Garment District” che mi ricorda per più motivi la musica dei Loma Prieta. L’associazione può essere del tutto casuale, ma fissando lo scorcio di questa vita suburbana dove una massa indefinita, ridotta a degli uniformi pallini, cerca di muoversi e di districarsi fra l’irregolarità della metropoli riesco a vedere dei rimandi al gruppo di San Francisco. Le sensazioni che fin dagli esordi nei primi anni 2000 sono scaturite dall’ascolto dei californiani sono sempre state collegate in modo piuttosto viscerale a delle metafore del caos ordinario che ognuno di noi può vivere ogni giorno. Non è un caso che nella compressione estrema di sentimenti, emozioni e pensieri i Loma Prieta abbiano più volte rigurgitato brani asprissimi, come se fossero entrati in contatto con qualcosa di estremamente repellente. Basti prendere per esempio l’ultimo lavoro “I.V.” che, per loro stesse parole, nacque in un periodo piuttosto nero nell’esistenza di ognuno dei membri della band. Un sentore che si tramutava in un nichilismo musicale fatto di ritmiche disperatissime e saturate all’inverosimile nell’essere taglienti e feroci, con ben pochi spiragli rassicuranti. Tornando alla fotografia che ho citato in apertura, mi è sempre sembrato di vedere degli atomi impazziti che cercano, ostentando un movimento molecolare, una direzione, un preciso tragitto. Tutti così vicini, eppure così distanti, con mille sfumature e sfaccettature, per lo più impenetrabili, con delle apparenze che paiono anonime. Legami che si creano e si slegano. Incontri e nuove prospettive che si mischiano con vecchie abitudini. Nella foto della Bourke-White è possibile immaginare, a proprio piacimento, di tutto. Modellare e rimodellare il flusso cittadino. Qui arriva “Self Portrait”, in quanto queste ultime parole che ho usato per descrivere “Hats in the Garment District” sono calzanti per ciò che il nuovo full length in uscita su Deathwish rappresenta. I Loma Prieta si ridisegnano. È giunta l’ora di guardarsi lo specchio, far cadere ogni strato scorticante, riesplorarsi, andando a recuperare le aperture ariose di “Last City”, ma al tempo stesso si è attenti a forgiare una nuova identità con cui presentarsi al mondo. Questo è “Self Portrait”.

La chiave di volta è cercare di sfuggire alle definizioni. Lo è sempre stato e sempre lo sarà. I Loma Prieta giocano nel sfumare i contorni della propria proposta, lasciando che i generi d’appartenenza siano volutamente sfocati e vagamente indefiniti. È questo il punto di forza di “Self Portrait”: da un lato rispolvera le radici screamo, ma dall’altro le frulla con una semplicità disarmante ad altri lidi di cui i nostri si sono appropriati. Ogni singola composizione pulsa e respira d’anima propria, togliendo così punti di riferimento su cosa si stia ascoltando. L’unica operazione che dovete fare è il lasciarsi avvolgere dal caleidoscopico mondo che i Loma Prieta hanno partorito, perché per la prima volta c’è un complesso mosaico di intrecci sonori. Una cosa resa possibile grazie a una potente produzione di Jack Shirley che esalta come mai s'era visto precedentemente la prestazione dei nostri. “Self Portrait” cattura l’essenza dei Loma Prieta in cui la linfa creativa difficilmente s’esaurisce, donando così una caotica poliedricità in cui perdersi. Infatti, tranquilli, i californiani non hanno perso d’intensità, anzi, ma questa è stata calibrata talvolta in modo più riflessivo e metodico, basti pensare a brani come “More Perfect”, “Nostalgia” e “Satellite” che vanno ben oltre i quattro minuti. È un post-hardcore realizzato al suo meglio. Il fluire delle melodie sa essere delicato e trascinante in un batter d’occhio. Il mutare ossatura rende “Self Portrait” l’esperienza completa per potersi avvicinare ai Loma Prieta.

Riverberi sofferti si confondono e deflagrano sotto il peso emozionale del solito allucinato e assordante graffiato di Sean Leary. Stavolta però c’è spazio pure per un malinconico clean o dei cori lontani che si fanno sommergere dalle convulsioni che Val Saucedo provoca alla batteria. Una voce che addirittura abbandona dei binari canonici e viene filtrata come se fosse uno strumento aggiuntivo, surreale e disturbante. Il prisma sonoro riflette un’anima instabile che si inabissa oltre i cliché del genere e Brian Kanagaki alla chitarra, duettando con Sean, è una cascata pressoché infinita di schizofrenici risvolti noise piuttosto che dilatati frammenti ambient dove per un attimo si può trovare pace. Immediatamente però ci si rituffa nel turbine che s’alimenta di impulsi irrazionali, dettati da un’apatia interiore che tale non vuole essere. “Self Portrait” difatti rischiara l’orizzonte solitamente caustico dei Loma Prieta e sebbene la disillusione regni sovrana, c’è spazio per trovare quelle scaglie di speranza che possano allontanare allarmanti scenari. Se questo concept viene sviluppato a livello lirico, è evidente come le stesse declinazioni si nutrino nella bivalenza di distorsioni sì claustrofobiche, ma liberatorie (se non sognanti). Giocando e smussando i propri angoli, l’impatto rimane sgretolante, grazie anche a un James Siboni che, a un tormentato basso, aumenta e non di poco lo spessore del wall of sound. Mattoncino dopo mattoncino prende vita il tunnel in cui i Loma Prieta dipingono le proprie escalation accecanti, dei frastornanti stop’n’go e delle implosioni pregne di passione.

Se aveste voglia e tempo di recuperare quello che avevo scritto in chiusura della mia recensione su “I.V.” trovereste il giusto riquadro in cui immortalare “Self Portrait”. Siccome neanche io avrei interesse ad andar a scovare l’esatta citazione, basti sapere che mi pareva logico pensare che per i californiani lo step per un eventuale capitolo successivo a “I.V.” fosse quello di invertire la tendenza che li aveva visti protagonisti di un crescendo cupissimo a livello di sonorità (vedesi split con i Raein). Così è stato. Sono serviti tre anni, ma la raffinatezza del lavoro è cristallina e finalmente quella fitta nebbia sopra le colline di San Francisco si sta diradando, pronta a far decollare un’alba più radiosa che riveli dei Loma Prieta al massimo delle proprie potenzialità.

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