È rossa e canadese, ma fedele alla migliore tradizione irlandese. Non parlo di una birra, ma di Loreena McKennitt, ispirata e raffinatissima autrice di musica celtica cresciuta al di là dell'Oceano, anche se il nome non lascia dubbi sulle origini della sua famiglia. Ad un certo punto della sua vita ha sentito il bisogno di rifare all'inverso il viaggio dei suoi antenati, cercando nelle terre dei Celti quei suoni arcaici e profondi, quegli echi che si ascoltano solo in antiche chiese o monasteri, per appropriarsi (o meglio, riappropriarsi) di tutto ciò, che insieme all'amore per i poeti irlandesi, era da sempre nel suo DNA. Dopo essersi fatta le ossa con due album suggestivi, ma basati quasi interamente su canti tradizionali, con questo incantevole "Parallel Dreams" si è imposta anche come compositrice, oltre a confermare doti vocali non comuni.

A questo punto il confronto con Enya diventa inevitabile: entrambe hanno basi musicali colte, curano il suono in modo certosino, hanno voci eccezionali, e infine entrambe sono state capaci di farsi largo a suon di milioni di dischi venduti in un mercato che normalmente non premia la qualità. Allora, Loreena clone di Enya? O viceversa? Calma, partiamo dalla voce: il registro di Loreena è quello di un soprano che spacca i cristalli, più acuto e "terrestre" della vellutata voce da angelo di Enya. Musicalmente poi, anche se sembra un paradosso, la canadese è più ligia alla tradizione rispetto alla cugina irlandese: Loreena si accompagna quasi sempre con l'arpa e i suoi musicisti suonano in genere strumenti acustici, mentre Enya propone un mix di antico e moderno in cui l'elettronica ha una parte fondamentale.

I sogni paralleli di questo disco affascinante si svolgono prevalentemente nel passato: sono storie d'amore eterno, capace di durare oltre la morte ("Annachie Gordon", unico brano tradizionale), sono quadri bucolici, notti di nuvole che giocano con la luna ("Moon Cradle") o quadri più gotici, notti più fosche con tanto di classico verso del gufo ("Samain Night"). Ma i sogni possono essere anche elementari bisogni, come quello della bimba di "Dickens' Dublin (The Palace)" che vaga per le strade di una Dublino ottocentesca e dickensiana (cioè povera, molto povera) immaginando niente di più che una casa dove abitare. Le musiche sono naturalmente adeguate alle situazioni: fiabesche e oniriche quelle dei quadretti notturni, intensa e sofferta quella dello scorcio dublinese, che commuove a prescindere dalla voce della bimba, della quale anzi secondo me si poteva fare anche a meno.

Altri sogni viaggiano più veloci: sono danze propiziatorie degli Indiani d'America, come "Huron Beltane Fire Dance", con il suo ritmo tribale di percussioni, o ballate tese e incalzanti come "Standing Stones".
C'è poi il sogno di una natura intatta, nelle note rarefatte e nei prodigiosi vocalizzi di "Ancient Pines", e c'è infine il sogno più intenso e toccante, che a differenza dei precedenti è interamente proiettato nel futuro. È il sogno di un mondo più libero, senza guerre né oppressioni: è "Breaking The Silence", non a caso dedicata ad Amnesty International. Anche in un disco di altissima qualità spicca come capolavoro, grazie al crescendo di tensione e al drammatico finale, che rimandano a "Biko" di Peter Gabriel, ma con una melodia ancora più ricca e fantasiosa. Il finale ci dice, pur senza parole, che il sogno almeno per ora è destinato a rimanere tale, ma la cosa importante è che ci sia qualcuno capace di averlo e di saperlo tradurre in autentica arte.

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