È dolorosissimo parlare di questo disco con la consapevolezza di essere di fronte all'ultimo della trentennale carriera di questo gruppo formidabile, è dolorosissimo farlo a così poca distanza dalla morte di Mimi Parker, anima e corpo del gruppo insieme al compagno Alan Sparhawk. Perché di per sé Hey What è un disco oscuro, che parla di dolore e solitudine, ma in molti punti è anche un disco luminoso, che risplende di una luce e di una speranza a tratti anche violenta, aggressiva. D'altronde i Low pur dietro una spessa coltre di malinconia avevano sempre coltivato la luce, ma mai avevano saputo (o voluto) manifestarla in sprazzi così accecanti.

Il disco ruota intorno a un'idea di ritmica ossessiva e asfissiante, che si ripercuote anche sulla scelta di suoni prevalentemente elettronici e quasi sempre distorti o disturbati, ereditati dal precedente Double Negative. Per quanto i due album siano simili sia nel sound che nel carattere generale, Double Negative è un disco che dà impressione di essere un edificio in costruzione, animato proprio da un affascinante caos creativo e da una ricerca costante che aveva portato a un disequilibrio fra brani francamente dimenticabili e capolavori come quella perla di Fly; Hey What è invece un disco monolitico, solido, un blocco unico all'interno del quale molti brani si susseguono senza inizio né fine, in un continuum a marce forzate che non lascia tregua.

Non ci sono brani che si stagliano sopra gli altri, a volerne trovare proprio uno potremmo citare Days Like These, lucidissimo ritratto di un'umanità uscita distrutta e sconvolta dalla pandemia ma consapevole di avere di fronte un mondo molto diverso da com'era prima, con nuovi difetti ma anche nuovi pregi; tuttavia la solidità e l'equilibrio dell'album non lasciano mai spazio a riempitivi o tempi morti: ogni momento, ogni coda strumentale, ogni rumore bianco appare necessario nell'economia del disco, impressione che soltanto i grandi riescono a suscitare.

Temi come la sofferenza, la malattia e l'abbandono vengono declinati in questo disco in una veste quasi stoica, e abbinati a sonorità estremamente ruvide e spigolose che li portano a un altro grado di maturità e intensità: così l'insoddisfazione di More diventa una dura e ferma presa di coscienza, e la fine di una relazione in I Can Wait diventa un grido liberatorio che acuisce il dolore ma che gli dà anche un senso profondo.

Sono dunque tanti gli ottimi motivi per ascoltare questo disco: per ricordare Mimi senz'altro, ma soprattutto per ricordarci ancora una volta cosa sono stati i Low, e per gustarci una grande opera che ha fra i suoi pregi maggiori l'essere profondamente contemporanea, e forse anche leggermente oltre.

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