Alcuni dischi fanno scaturire nella mente di un essere umano delle sensazioni. Altri fanno apparire ologrammi finto-3D. Mentre pochi, pochissimi hanno il potere di creare “Neurologrammi” ovvero riescono a toccare in un colpo solo i cinque sensi, il sesto senso (senza finale a sorpresa) e lo spazio/tempo.

“Rebels, Rogues & Sworn Brothers” (2006 @ Liberty & Lament) è il sesto album per I Lucero, band “from Memphis, Tennessee”, come il buon vecchio wisky. Questo album ha avuto per il sottoscritto il medesimo impatto che fu per gli Howlin’ Rain del mai domo Ethan Miller dei Comets On Fire. C’è una piccola differenza. Mentre gli Howlin’ suonavano come un tributo giocoso e auto compiaciuto ad un certo psychedelic-southern rock anni 70, i Lucero sembra che non abbiano mai visto nascere il nuovo millennio, rimanendo feliciemente incazzati, punk nell’animo e country nelle radici.

E’ un disco maturo come un fico al sole, ruvido all’esterno ma morbido e ricco all’interno. Si possono sentire tutti gli odori degli USA più caldi, anche quelli più sporchi (“The rain'll wash away the piss and blood, But the water's not enough…” – “Sing Me No Hymns”). La voce di Ben Nichols graffia come un rastrello e carezza le “papille uditive” come il vellutato liquido tanto amato dai “tiratori di tappi nelle botti”. Cocci rotti e serate andate storte accompagnate da un pianoforte suonato “un dito alla volta”.

Sulla statale per “San Francisco” le chitarre muovono le sterpaglie in circolo, il rombo della macchina è un accordion in lontananza. “1979” è una ballata tutta pianoforte e chitarra, malinconica di borchie, pelli e rock’n roll (“you were mine, nineteen seventy nine, just skin and bones, your favorite dress, motorcycle boots, raised on rock & roll”) che andrebbe fatta seguire, in un “unicum malinconico” dall’omonima degli Smashing Pumpkins , i quali di contrappunto ricordano jeans e jukebox consumati. Due visioni dello stesso anno.

Ogni canzone colpisce per le melodie intelligenti e per il sempre puntuale lavoro di chitarre e tastiere. Il disco ha cadenze assolutamente blueseggianti e anche  I Don't Wanna Be The One”, che permette al batterista di tenere ritmi punk-rock tanto cari ai Weezer e ai primi R.E.M., e “Cass”, che si apre con un solarissimo assolo, risentono di quell’afflato struggente ed “empatogenico”. Il gruppo ci propone  stati d’animo che qualunque rockettaro D.O.C.G. sente propri, indipendentemente dai testi così localizzati.

Luce assoluta del disco è la bellissima cavalcata “The Wight of Guilt in cui il gruppo è coeso come in pochi altri momenti. Un pianoforte che scandisce gli accenti della strofa ed un ritornello strumentale da sentire e risentire. Certi signori Kings Of Leon hanno imparato molto da questa lezione.

Consigliato a scatola chiusa per gli amanti del rock e delle desolate lande americane (“San Francisco”), per gli amanti delle donne cow-boy e mezze dannate (“I Can Get Us Out Of Here Tonight”), di viaggi senza una meta e ritorni alle origini (“The Mountaini”), dell’alcool e delle sue infinite proprietà (anti)sociali (“Sing Me No Hyms”).

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