Certi classici bisogna solo avere il coraggio di iniziarli. Perché a volte lo status può intimorire, se non respingere. Invece, una volta compiuto il primo passo oltre la soglia, ti dimostrano perché hanno assunto quel titolo così raro e ambito. Parlano a un eterno presente, e non solo per i temi, ma anche e soprattutto per le forme, lo stile, la tecnica. Lo studio (ormai anni fa) e la visione di tanto cinema mi ripaga oggi mentre assaporo un titolo come questo, che - almeno nel mio sentire - richiamava un certo senso di pesante enfasi storico-letteraria, dipanata in tre ore di grandeur. Mi ripaga perché sento di avere gli strumenti per capirne le grandezza.

Semplicità e profondità

Il classico è tale proprio perché resta sempre giovane: anche a 59 anni, è più agile e più scaltro di me. Sa planare leggero sui mondi che racconta, senza macigni. Una vicenda che è semplice, essenziale, e insieme vastissima, onnicomprensiva. Essenziali e nitidi sono i fatti, i nodi di trama, ma da essi fioriscono fecondissimi i risvolti psicologici, simbolici, sociali, storici. E dunque abbiamo una storia che scorre agevole ma comunque ponderosa, gravida di significati.

Allo stesso modo, il copione alterna costrutti semplicissimi, quasi triviali, a improvvise impennate metaforiche, perle filosofiche sciorinate nel bel mezzo del normale chiacchiericcio. Senza enfasi, senza quasi mai sfiorare i toni solenni. Anzi, battendo più spesso quelli quasi comici, ironici, da commedia. Una saggezza beffarda proferita a mezza bocca tra le tante banalità della gente.

La schiettezza di Fabrizio Corbera, la sua concretezza che non ignora le sfumature, è la stessa dell'occhio registico, che scandisce la vicenda attraverso due dimensioni essenziali: lo spazio, la visione, nei campi lunghi dei paesaggi agresti di Sicilia o negli sfarzosi saloni dei palazzi nobiliari. E il tempo, il ritmo, le musiche.

Campi lunghi, primi piani

Le inquadrature segnano una dicotomica alternanza. C'è la ragion di Stato, la Storia con la S maiuscola, che vive nei campi medi e lunghi, dove gli individui assumono un ruolo esteriore, dove vediamo le masse che si scontrano, che vengono costrette e piegate dai grandi moti della Storia. I garibaldini, i soldati della monarchia di Franceschiello, il popolo di Donnafugata, i cittadini di Sicilia. Ma anche i nobili, i saloni pieni di donne eleganti e uomini in frac. Uno sguardo che fissa ruoli e gerarchie, schematizza processi. Grandi quadri che stupiscono per la loro composta vastità. Sullo schermo ci sta davvero tanto, c'è spazio per la complessità del mondo che si trasforma.

In questa massa tumultuante, solo alcuni personaggi (in realtà pochi) hanno il privilegio di vedersi avvicinare dalla cinepresa. E diversi di questi restano comunque macchiette, maschere pseudo-comiche che dicono in fondo la pochezza degli individui, che semplicemente si adattano. Don Calogero resta buffo, anche se è sindaco, anche se è ricco. La principessa non ha una profonda psicologia, fatica a vedere oltre i tempi e i ruoli che già conosce. I primi piani si infittiscono nella seconda parte, quando prende il sopravvento la vicenda di Tancredi e Angelica. Ecco la storia d'amore, ma non viene fatta vivere come tale, è quasi data per scontata, narrata ellitticamente. Perché non è quello il punto.

Il gattopardo

Tutto quel che conta ci viene dato nelle riflessioni e nelle scelte del principe di Salina, che è personaggio, simbolo e narratore acuto dei cambiamenti storici. La sua complessità di pensiero è l'eredità di un'intera epoca, condensato di generazioni che si trovano di fronte a una svolta immane e ne contemplano i risvolti e le immobilità. In fondo, lo si vede bene al ballo finale, la malinconia di Fabrizio è quella del leone in gabbia, che vede tramontare la sua epoca sapendo che i suoi continuatori (Tancredi) non ne avvicinano la statura. Si fa da parte, il principe, ma sapendo che “tutto sarà peggiore” anche perché non ci saranno altri come lui.

Il ritmo

Questi temi rendono giustizia al libro, ma è altro quel che colpisce davvero in termini di cinema. Come dicevo, è la leggerezza del dettato, la capacità di scorrere agilissimo. E qui ritorniamo alla dimensione del tempo: è profondamente dilatato, da un certo punto di vista. I fatti che vediamo accadere sono in realtà pochissimi (ciò che conta è la riflessione) ma il ritmo invece è incalzante, quasi sincopato. Fine strategia di alleggerimento, con marcette allegre che sottolineano i risvolti comici e anacronistici dei fatti, anche i più drammatici. C'è ritmo nel taglio quasi slapstick di certe movenze, nella scansione molto fisica delle scene, le sequenze dialogate raramente si incardinano su posture statiche. Alcune scene quasi vengono presentate ellitticamente, per sgravarle di eccessiva pesantezza. C'è anche parecchio non detto, in un'opera così vasta non manca un certo minimalismo. Ritmo e facilità sono assicurate anche dal nitore della trama, che semplifica e spiega invece di complicare.

Nobiltà e borghesia a colloquio

Pulizia confermata da alcune scene magistrali, che sembrano richiamare certe eccellenze manzoniane. I dialoghi tra il principe e padre Pirrone, o quello nel quale egli chiede a don Calogero la mano di Angelica per il nipote. Ogni parola dice tutto del pensiero, del carattere, della forza o della debolezza dei personaggi, che è forza o debolezza di intere classi: il clero, la nobiltà, la borghesia. La concretezza profondamente saggia del nobile divora i vaneggiamenti dei sacerdote, sbaraglia le frivole ambizioni del sindaco. Fa passare quasi che sia lui, il nobile destinato alla decadenza, a fargli un favore con quel matrimonio. Sono sequenze di capitale importanza perché illuminano concetti storici generali. Angelica irrompe in scena come la donna borghese, energica, che sa ciò che vuole, colpisce nel segno e non si fa problemi a ridere di fronte a una battutaccia.

Il gran ballo

Non è soltanto il grande, celeberrimo ballo a incarnare un'opera come Il Gattopardo. Anzi, potrebbe sviare un poco. Un film che non vive soltanto di scene madri complicate, anzi. Vive di tanta sdrammatizzazione comica, di scenografie che sembrano dipinti, perfettamente immobili, di volti profondamente espressivi, seducenti: attori incredibili che paiono nati per quei ruoli. Le smorfie, le movenze, i costumi dicono già moltissimo. C'è una grammatica essenziale nell'opera di Visconti che non richiede letture difficili, complicate. Non comporta fatica. È la gioia del cinema nella sua dimensione geniale e artistica, di puro talento e amore per ciò che si sta facendo, senza che venga per questo mai meno il rigore e il contenuto.

A mio avviso la scena del ballo è emblematica sì, ma in modo obliquo. Un colosso di 44 minuti, con infinite difficoltà logistiche, accuratezza maniacale del cineasta, ricchissima scenografia, eppure, la nostra visione scorre con massima armonia, perché il talento registico nasconde la complessità, si carica delle fatiche, e ci regala solo il piacere di vedere e godere di tutto quanto.

Non c'è mai un'enfasi esibizionistica che si focalizza sui dati materiali del cinema, per quanto siano note le vicende finanziarie del film. No, la ricchezza estrema del meccanismo è completamente asservita alla semplicità e al nitore dei sentimenti. Una bellezza così elaborata, eppure così immediata e intuitiva, che non può non commuovere.

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