Da battistiano di ferro (periodo Mogol, periodo Panella per me l'è i stess, cioè li trovo meravigliosi entrambi) mi dolgo e mi prendo le mie colpe. Ho sempre sottovalutato questo album, considerandolo un apostrofo rosa tra le parole "Canto libero" e "Anima latina", tanto che non ce l'ho nemmeno in CD (e io di Battisti li ho tutti in CD), ma grazie all'algoritmo di Spotify l'ho riascoltato, dopo una vita, una settimana fa. E mi sono dato del pirla, perchè aver sottovalutato una roba del genere è da pirla. Viste anche le premesse.
L'album esce l'anno dopo "Il mio canto libero", e va al numero 1, così, come capitava sempre a Battisti. Ma far andare al numero 1 un lavoro così era segno di una impressionante alchimia tra l'artista e il pubblico, perchè non è un album facile, è lontano anni luce dalle canzonette (canzonette di lusso) alla "7 e 40" e ben più vicino alle sperimentazioni del lavoro successivo, di cui questo è in qualche modo il predecessore.
Battisti, che da qui in poi non scriverà più nulla per nessuno, per la prima volta abbandona l'Italia e va a Londra, registra l'album negli Abbey Road Studios con la supervisione di John Leckie (uno che collaborò, e aveva già collaborato, con gente di poco conto come John Lennon, Syd Barrett e Pink Floyd) e lascia un giusto spazio alle parole di Mogol (qui davvero scatenato) ma lascia ampio spazio alla musica intesa come assoli di chitarra e sintetizzatori. Insomma, Battisti ha sempre pensato che la musica venisse prima delle parole e qui lo dimostra appieno, fondendo le due cose con un'abilità stupefacente considerando che aveva solo 30 anni.
Lato A
Ok, c'è "La collina dei ciliegi" e questa la conosciamo tutti, oltretutto fecero scalpore le "braccia tese" e il presunto fascismo di cui, si diceva, erano inclini i due autori, poi tutto smentito e vabbé, sappiamo che negli anni '70 o si era militanti o si era di destra, la terza via era impossibile. Chiude la facciata la title-track, che si disse fosse stata scritta per il figlio Luca, ma non c'entra nulla, è una critica alla Chiesa Cattolica, e le chitarre fanno molto Everything but the girl dieci anni prima. In mezzo c'è un uno-due da k.o.: "Ma è un canto brasileiro" è una critica ferocissima alla pubblicità, al consumismo e al voler "vendere" prodotti di ogni tipo al di là di ogni ragionevole dubbio. A livello musicale è un capolavoro di intrecci rock (c'è molto rock in questo disco), di cori mariachi, di xilofoni, di sali e scendi battistiani (un suo marchio di fabbrica, e c'è chi lo paragonò a Puccini) capaci di creare un'atmosfera al contempo gioiosa e decadente. A seguire il pezzo più sperimentale dell'album, "La canzone della terra", che a me, a 20 anni, non diceva nulla e mi annoiava, ma ero scemo io, perchè il ritmo tribale ossessivo che è la linea melodica dell'intera canzone farebbe da sola un'eccezione totale nel mondo della musica italiana dell'epoca, dato che una cosa così non si era mai sentita. C'è pure qualche (semi) velato risvolto hot nel testo, ma anche la famosa copertina scattata da Paolo Minoli (che fece scandalo, seni al vento, non sia mai) è la rappresentazione di questo brano, che è un racconto profondo di una giornata quotidiana di una famiglia del passato con i suo riti immutabili e opinabili (in pratica lei sta a casa a fare le faccende, lui torna alla sera stanco dal lavoro e pretende che lei lo ascolti e che gli si conceda ogni sera).
LATO B
Il migliore, il più snobbato, anche se c'è una canzone, a mio avviso, di troppo. "Le allettanti promesse" è esilarante, perchè un coro di donne invita un lui a mollare la campagna e andare a vivere al paese e lui risponde picche. Sintetizzatori e basso da urlo, e intrecci vocali tra i più azzardati di Battisti (roba che in "Pensieri e parole" si capiva subito tutto), tanto che ad un certo punto della canzone o si ascolta ciò che dice lui o si ascolta il coro o non si capisce nulla, ed è tutto bellissimo. Su "Io gli ho detto no", perdonate il gioco di parole, si è detto tutto. Tutto sbagliato però, perchè la canzone è misteriosa, si presta a più interpretazioni, anche per colpa di quel "gli, tra le ipotesi più fantasiose: lui è bisessuale (scrive Renzo Stefanel, critico, "delicata storia priva di ogni moralismo», che «vuole suggerire la pari dignità di ogni amore per l'autore, che si contrappone così nettamente ai pregiudizi beceri e maschilisti di Le allettanti promesse», non ci aveva capito nulla); lui è un obiettore di coscienza, o signùr, il divorzio. Mogol anni dopo spiegò che si trattava di un uomo che aveva rifiutato un lavoro che prevedeva una forte somma di denaro, e tornava affranto dalla moglie, ecco il significato di quel "scordando il già scordato color di mille lire". Chiude "Questo inferno rosa", una mini-suite di quasi 7 minuti, con coda finale schitarrante, che fece sussultare le femministe perchè lui, dopo aver sposato lei, non la riconosce più, è cambiata, non ha più gli slanci di una volta (quello ad esempio di far vedere le tette ad un vicino molesto cantandogli "Fratelli d'Italia", qui Mogol stava in trip sicuro) ma è un gioiellino, forse una delle più belle composizioni battistiane, molto british (e in effetti l'intento era quello di portare il pop italiano verso il terreno anglosassone, ma capirai, a quell'epoca in Uk c'era abbondanza e anche di più). Non dimentico ovviamente "Prendi fra le mani la testa", che mi pare il brano più debole del disco, oltretutto trattasi di riciclo, visto che era stata data al semi-carneade Riki Maiocchi nel 1967 e ci girò l'Italia ai tempi del Cantagiro.
A scorgere tra i crediti, il solito Gian Piero Reverberi, il mitico Gianni Dall'Aglio (la coda finale di "Non è Francesca" è intuizione sua) e Mara Cubeddu, già nei Flora Fauna Cemento (e chi se li ricordava più) che poi sarà la doppia voce di "Due mondi" in "Anima latina". Appunto, tutto si colega.
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