Guardare in faccia lo schifo del mondo, raccontarlo con parole semplici, concetti quasi elementari, eppure andando a fondo, anzi trovandosi nelle profondità più oscure dell’animo umano. Abituato al linguaggio barocco di Faber, inizialmente Dalla mi ha sorpreso, per le costruzioni sintattiche e il lessico popolare. Poi ho incontrato questo disco e ho capito tutto.

Lucio raccontava la miseria dell’umanità, ma a differenza di Fabrizio, non voleva necessariamente trovarci una chiave poetica, nobilitante. No, qui ci si rigira nella disperazione insieme agli ultimi. In mezzo a tanta umanità tangibile, quasi teatralmente presente, si staglia quel pinnacolo incredibile che dà il titolo al disco.

Il brano Come è profondo il mare racconta ben di più; attraverso un racconto frammentato, quasi incomprensibile all'ascolto poco attento, va a scrivere un trattato sull’umanità, sulla società, sui meccanismi implacabili della ferocia umana. Non è quindi un cantastorie in questo frangente Lucio, è un filosofo, perché parte dal particolare e va al generale, dalle storie desume una visione complessiva.

In bilico tra disgusto per i processi socio-politici della storia umana ed estasi per la ricchezza inesauribile dell’esistenza, dell’infinito brulicare di vita degli umili, il brano desta stupore anche e soprattutto per la capacità di ridurre a immagini immediate concetti alti, complessi, generali. Un linguaggio molto elastico, istintivo, sempre figurativamente ricco, quasi come un’unica grande sinestesia in cui i sensi si mescolano. D’altronde, quando senti che «stanno bruciando il mare», capisci che non bisogna fermarsi alle distinzioni stucchevoli del realismo; qui si «resuscitano i morti», il povero è lasciato «solo in mezzo al mare». I pesci iniziano a pensare e anche il muro d'acqua che li protegge non è più sicuro, perché «stanno piegando il mare».

L’umanità di Dalla è scellerata, cialtrona, surreale. Disposta a scambiare un bambino per «un chilo di pane e un fiasco di vino». Ma c’è una via di fuga, sempre, non tanto reale, immaginifica. Così il padre «prende in mano un bastone e comincia a volare» (Treno a vela).

Ancor più gustoso quando alla miseria d’animo, dei poveri ma soprattutto dei borghesi, si aggiunge lo specchio deformante dei pregiudizi, dei pettegolezzi, della diffidenza immotivata, aprioristica, basata su preconcetti magari razziali («dev'essere uno slavo»). In questo senso, molti politici e persone di oggi dovrebbero ascoltare Corso Buenos Aires. Un distillato velenoso di travisamenti della realtà, un continuo accostamento di fatti e interpretazioni altamente deformanti. Un capolavoro di virtuosismo linguistico, senza usare una parola difficile che sia una. Che poi deraglia in un finale surreale, da farsa, da caciara tra barboni (dentro o fuori). La volante che «non frena e fa un massacro», «un salumiere e un tabaccaio che da anni non si rivolgevano la parola approfittarono della confusione per spararsi alcuni colpi di pistola». Un quadretto da verismo verghiano, filtrato da un punto di vista quasi psichedelico, che camuffa una malinconia infinita nelle immagini un po’ folcloristiche, un po’ cialtrone («ci beviamo anche un grappino!»), un po' surreali.

Dopo tante canzoni sulle prostitute di Faber, ricordo che Disperato erotico stomp mi fulminò fin dal primo ascolto. Per due motivi: qui il sesso, le perversioni e la smania non sono di professori bamboccioni o di un Carlo Martello lontano, ma dell’autore stesso. Questo fatto le amplifica a dismisura. E poi il linguaggio: «la sottana fino al pelo», «la tua amica, quella alta, grande fica». In tanto colore, che comunque è già di per sé memorabile nel paese di Sanremo, viene snocciolato il focus esistenziale del pezzo. Se «l’impresa eccezionale è essere normale», significa che l’umanità è fatta di migliaia, milioni di diverse eccezioni: nessuno è normale, ognuno è deviato e quindi è la devianza la vera “normalità”. Alla luce dell’omosessualità di Lucio, il brano assume un significato ancor più forte.

Sono queste le canzoni più forti del disco, o quelle a cui mi sono legato di più. Nelle altre forse la malinconia si fa più tangibile, nei suoni e nei ritmi, nelle atmosfere e anche nelle parole. Sono brani pazzeschi anche gli altri, eh. Quale allegria è micidiale, un testo che è sale sulle ferite della vita quotidiana di ciascuno di noi. Le maschere pirandelliane che ognuno di noi indossa. «Uscire presto la mattina, la testa piena di pensieri, scansare macchine, giornali, tornare in fretta a casa, tanto oggi è come ieri». La visione nera della quotidianità qui è scoperta, ma non si riesce proprio a dare del pessimista al cantautore, anche perché la sua è una lettura anti-catartica. Lo schifo del vivere non è solo ciclico, è anche necessario: «Esser costretti a farsi anche del male per potersi con dolcezza perdonare e continuare». Bellissima versione dal vivo nel secondo disco.

In una simile, tracimante miseria, il finale è riservato alle speranze, ai desideri. Che sono umili, ovviamente: la fuga su un’isola, non tanto lontana, e poche cose: «un cane, un piatto sicuro e una donna di fuoco» (Barcarola). Non sono certo io a dover ribadire la bellezza del disco. Chiudo con due parole su questa Legacy Edition uscita settimana scorsa. I brani rimasterizzati evidenziano alcune trame musicali che prima stavano troppo in sottofondo, la musica è più tridimensionale. Il secondo disco di esecuzioni in concerto non è affatto noioso, perché le versioni dal vivo sono eclettiche e molto differenti da quelle in studio; alcuni brani sembrano quasi trasfigurati. Sicuramente un acquisto sensato, nel caso.

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