"Sentì che era un punto, al limite di un continente... sentì che era un niente, l'Atlantico immenso di fronte..." Questo sentì la bambina portoghese dell'ormai classica canzone di Guccini, fino a rimanerne sopraffatta. Parecchi anni dopo questa bambina era diventata donna, capace di comunicare questo senso di smarrimento attraverso la splendida voce che aveva ricevuto in dono: era Teresa Salgueiro, cantante e anima dei Madredeus.
Bè, le cose non sono andate proprio così: la bambina di Guccini era solo un simbolo, però è bello immaginare un'origine vaga e un po' nebulosa per questo incredibile gruppo, spuntato quasi dal nulla per rendere accessibile ad un grande pubblico la natura intensa e dolorosa della musica portoghese. La star naturalmente è Teresa, con il suo miracoloso mix di amara malinconia da cantante di fado e di composta raffinatezza new age (a tratti pare una Enya portoghese), ma il cervello è Pedro Ayres Magalhanes, autore di gran parte delle musiche e dei testi e virtuoso chitarrista, che insieme all'altro ottimo chitarrista Josè Peixoto costruisce delicate trame di arpeggi, ideali per esaltare le doti vocali di Teresa. Completano il quadro un violoncello (sì, proprio un violoncello, non un contrabbasso e men che mai un basso elettrico) che dà corpo al suono, e un accordion, specie di fisarmonica che in certi frangenti ("O pastor") evoca il leggendario bandoneon di Astor Piazzolla.
Un ensemble cameristico, si direbbe, ma capace di sviluppare un suono in bilico fra tradizione portoghese e moderna world music, con sporadiche incursioni in altri generi, come in "Oxalà", dove le due chitarre acustiche offrono sfumature jazzeggianti, o come nella toccante "As brumas do futuro", la più "internazionale" della raccolta, che seduce a prescindere dalla quasi totale assenza di "colore portoghese". Questo è invece particolarmente intenso in un quadretto delizioso come "Andorinha de primavera", in una turbinosa e spettrale danza come "A vaca de fogo", con l'accordion grande protagonista, in "Alfama" e in "Guitarra", dove è inutile dire quale strumento si impone. Ma i momenti che ti inchiodano ad ascoltare come inebetito, quelli che veramente riescono a tradurre in musica la sensazione di trovarsi davanti all'Oceano, sono altri.
Sono canzoni ipnotiche, dall'atmosfera incantata, come "Vem" (Vieni"), con la voce che si sofferma sensuale su queste tre lettere per un tempo lungo come un'onda dell'Atlantico, o come "O sonho" (Il sogno) così dolce e inconsistente da chiedersi se veramente non si è udita sognando. E queste non sono ancora le vette più alte: che dire di "O Tejo" (Il Tago), il fiume di Lisbona che è mare e fiume insieme...? Solo che è lì, lo puoi vedere. "Ainda" sono pensieri a ruota libera, cullati dall'onda lunga della voce di Teresa e da un fantastico, struggente motivo in crescendo, che ti sorprende debba avere una fine. "O mar", pochi versi per dire che il mare è indescrivibile, tanta stupenda musica che invece il mare te lo fa entrare nelle ossa: alle spalle puoi avere le più familiari e rassicuranti casine decorate di azulejos (dove sono rimaste), ma di fronte hai l'immensità. Da ascoltare ad occhi chiusi, o al massimo con un libro, magari di Antonio Tabucchi, ormai più portoghese che italiano.
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