Mahavishnu Orchestra - Apocalypse 1974

Molti sono stati nel tempo i tentativi di coniugare il rock con la classica. Il matrimonio tra la rock band e l’orchestra, più o meno nutrita, sembrava voler dare un tocco sinfonico, ammorbidire le schitarrate o semplicemente aggiungere una sezione inedita a brani già eseguiti. L’idea, inizialmente, poteva sembrare appartenere alla lungimiranza di alcuni e veniva letta nel più ampio concetto di sperimentazione, in realtà e forse più prosaicamente, lo scopo era quello incontrare i favori anche delle persone abitualmente lontane dalla rock band tout-court.
Deep Purple, Caravan, New Trolls, Moody Blues, Jethro Tull, Elton John … moltissimi nel tempo fecero l’esperimento in studio o dal vivo, persino discutibilissimi e alquanto improbabili tentativi di Heavy Metal + Orchestra.

Nel 1974, osando su binari diversi, anche la band jazz rock per eccellenza, la Mahavishnu Orchestra, decise di proporre la propria musica ampliando l’organico con la famosa London Symphony Orchestra.


Certo, idea non nuovissima, visti gli svariati esempi di alcune big band di jazz già si orientavano da tempo verso schemi di jazz sinfonico. C’è stato poi anche il mega super gruppo Centipede, che nel 1971 propose un disco farcito di quegli intenti, ma con nette differenze sulle partiture: in gran parte improvvisate per questi ultimi e assolutamente scritte e puntualmente eseguite per la Mahavishnu Orchestra.


La scelta di eseguire brani inediti con orchestra fu anche il colpo di grazia alla band, già in forte attrito durante le registrazioni del precedente album “Between Nothingness and Eternity e che riuscì a proseguire solo perché John McLaughlin era titolare del nome. Così Billy Cobham, Jan Hammer, Jerry Goodman (batteria, tastiere e violino), per nulla d’accordo sull’incisione di un album che sarebbe stato, a loro parere, troppo distante dai primi episodi discografici e che quindi avrebbe allontanato il pubblico dal concept della band, lasciarono definitivamente. Alla luce dei fatti è più probabile che dietro ad un apparente timore di svolta sinfonica, il loro problema potesse essere riconducibile al timore di risultare meno visibili in un disco dalle fattezze orchestrali.
McLaughlin iniziò a mettere assieme tutti i tasselli necessari. Al banco di produzione volle nientemeno che Sir. George Martin, che ovviamente portò con sé il tecnico del suono “number one” Geoff Emerick. Nella nuova formazione, Jean Luc Ponty, con credenziali di Mr. Zappa, al violino, il giovanissimo e tecnicissimo Michael Walden (da fine anni ’70 Narada) alla batteria e la giovane e sconosciuta Gayle Moran, con credenziali di Chick Corea sposato nel 1972, alle tastiere e alla voce. Cambiò anche il bassista, con Ralphe Armstrong al posto di Rick Laird. Con questa poderosa squadra, partiture jazz rock dello stesso McLaughlin e partiture sinfoniche del direttore Michael Gibbs, la registrazione prese rapido avvio e l’esito, pregno di forza e contrasti, fu notevole.


Cinque brani di varia lunghezza, dai quattro minuti di “Power of Love” nella quale prevale una tenue orchestrazione su architetture elettro-acustiche di McLaughlin, ai quasi venti minuti di “Hymn to Him”, una vera suite orchestrale con scorribande di violino e rincorse continue con la chitarra, in un dualismo davvero efficace, su ritmiche poderose e complesse. Se vogliamo cercare un brano più legato al passato e alla prima produzione dobbiamo riferirci a “Vision is a Naked Sword” con Walden che spinge come un dannato per non far rimpiangere Cobham. L’esercizio non è dei più semplici e il tocco magico di “Fourstick Man” manca, ma Walden fa il suo molto bene, la sua tecnica è notevolissima.
Racconto un po’ separato, nel disco, è “Smile of the Beyond”, un tenue acquerello dove il cantato onirico della Moran, pur precisissimo e tecnicamente perfetto, risulta colpevole di un certo calo di tensione e sposta l’ascolto verso lidi più spirituali e, se possibile dirlo, new age ante litteram.


Un episodio anomalo nella carriera, come lo è stato per chiunque abbia voluto cimentarsi nella commistione band + orchestra sinfonica, ma il risultato c’è. “Apocalypse” non può definirsi il miglior disco della band, resta un lavoro consigliabilissimo, intrigante e che si lascia assaporare per la grande e calda maestria di McLaughlin e soci e per le grandi e positive aperture sinfoniche, che spesso illuminano e stemperano le tipiche spigolosità del jazz rock della Mahavishnu.
Sioulette p.a.p.

Carico i commenti... con calma