La pubblicazione di quest’album è del 1999, ma le musiche in esso contenute risalgono al 1973. Evento certo non raro nei destini delle registrazioni musicali, vi fu una casuale riesumazione di un paio di bobine multitraccia, dimenticate per un quarto di secolo negli scaffali di qualche ripostiglio di casa discografica. Un produttore che passava di lì le scoperse, vi si appassionò e volenterosamente si prese la briga di farle missare, masterizzare e uscire sul mercato.

Ma cos’era successo nel 1973? Dopo un paio di dischi di buon riscontro, i quali avevano elevato il quintetto fusion della Mahavishnu Orchestra al vertice della piramide del virtuosismo applicato al rock(jazz), i musicisti avevano cominciato a litigare.

Gli era che il capogruppo, il chitarrista inglese John McLaughlin, si rifiutava di fare entrare in repertorio contributi compositivi di altri membri del quintetto, tutti musicisti coi fiocchi e pieni di ambizione. La situazione a quel punto degenerò, McLaughlin finì per sciogliere la formazione ed i nuovi brani registrati in studio per il successore dell’ottimo e ben venduto album “Birds of Fire” (inizio 1973), restarono nel cassetto.

C’era però un obbligo contrattuale da ottemperare colla casa discografica, ovvero l’uscita di un ultimo lavoro. Per fortuna, alcuni nuovi pezzi erano già da qualche tempo entrati nella scaletta live, e c’era disponibile su nastro una performance fresca fresca al Central Park di New York che li annoverava, in numero di tre. Così le questioni legali vennero risolte rilasciando a fine ’73 un album dal vivo, intitolato “Between Nothingness & Eternity”, contenente i suddetti tre inediti al Central Park e null’altro, dopodiché ognuno per la sua strada.

Passato un quarto di secolo, ecco qua la chicca per i vecchi e nuovi(?) estimatori del combo jazz rock settantiano guidato dell’ex chitarrista di Miles Davis. Il disco contiene sei brani, ovvero i tre già noti per le loro versioni dal vivo più altri tre, completamente inediti. Tre brani sono di McLaughlin (uno inedito), il resto spartiti un per uno fra il violinista (americano) Jerry Goodman, il bassista (irlandese) Rick Laird e il tastierista (ceco) Jan Hammer. All’asciutto solo il batterista (panamense) Billy Cobham: c’è da dire, non c’é stato gruppo più globalizzato di questo!

Le due cose che mi sento di dire sono queste: il capolavoro dell’album resta “Trilogy” (lo era anche su “Between Nothingness…”, dal vivo): clamorosamente bello l’arpeggio introduttivo di 12 corde elettrica, su tempo dispari astruso anzichenò, e altrettanto il ritornello a inseguimento fra i tre solisti. L’episodio è ovviamente strutturato in tre movimenti, ed anche il secondo è inizialmente notevole: su un arpeggio, diverso, di McLaughlin, violino e basso “cantano” all’unisono un bel tema, che poi degenera coll’arrivo della batteria a tutta birra. Allungano il brodo i soliti immancabili assoli a rotazione, nevrastenici, con gara a chi snocciola più note al secondo; fanno perdere un poco l’abbrivio, ma è bellissimo poi il ritorno improvviso dell’arpeggiane iniziale, così spaziale e aperto e armonico, sul quale contrappuntano di gran carriera, ma in maniera diversa dall’inizio, un pò tutti i musici del quintetto

La seconda ed ultima cosa da dire è che McLaughlin non mi scalda più di tanto… il suo stile chitarristico che non contempla legati (ogni nota una pennata), e che rifugge dagli espressivi tiraggi di corde e vibrati (e quando li fa sono imprecisi, “sporchi” e talvolta stonati) mi appare deficitario, poco emozionante. L’uomo spara gragnuole di note peggio di Malmsteen (quest’ultimo però assai preciso e pulito, almeno). Lo fa in ambito jazz e non metal, ma sono sempre corse su e giù per la tastiera epidermicamente spettacolari, ma vuote.

Trilogy” però è proprio bella, e poi qui non vi è solo McLaughlin, c’è il batteraio extrairdinarie Cobham, il funambolico Goodman al violino elettrico, c’è virtuosismo, improvvisazione, coesione totale fra musicisti molto brillanti. A chi gradisce…

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