Ergo sum

"Bei tempi, sospira Gesuino, quando solo i galeotti si tatuavano e l'Asinara era un'isola serena.”

E oggi?

Oggi la beatitudine dell'Asinara è tutta da dimostrare (se lo dice Gesuino Cuccureddu possiamo fidarci, che lì dentro c'ha passato mezza vita), ma in compenso si tatuano tutti, tranne qualche vecchio ergastolano in segno di civile protesta.

Poco importa se non si ha esattamente il fisico da adoni, più si è sgraziati e peggio ci si tatua, ovunque: dai maniglioni dell’ammmore ai popliti.

E sarebbe bellissimo se ci si accontentasse di un’ancora sul braccio, alla stregua del mitopoietico Braccio di Ferro.

Se le soubrettes d'alto borgo hanno le farfalline proprio lì, noi moderni cavernicoli replichiamo con le nostre aquile della Kamchatka, le nostre dee Kali dalle cento braccia: ogni millimetro quadrato a disposizione è pronto a competere con gli affreschi cinquecenteschi della Cappella Sistina.

Perché andare in estatico pellegrinaggio fino ad un lontano stato straniero, quando per sfidare un qualsiasi Leonardo basta semplicemente denudarsi e riflettersi allo specchio?
E chi se ne importa di come ci si sarà ridotti tra qualche anno, con la pelle che si sciupa teoricamente molto prima del cervello.

Mi TATTOO, Ergo Sum.

L'infestazione dei tatuaggi ormai è divenuta peggio dell'invasione biblica delle locuste: e questa autentica ossessione per l'immagine del corpo non riguarda solo le giovani generazioni.

Un’ossessione trasversale che vanamente spera nel miracolo della bellezza eterna, ma che spesso è l'esatto contrario dello stile, dove le muse ispiratrici sono le nuove e uniche Divinità scese in terra, i depositari unici dell'eleganza dei nostri tempi: i calciatori.

Dagli ormai desueti tribali maori si è giunti alla raffigurazione del giudizio universale, alla intera guerra delle galassie, passando per Thor, Heidi e Tiramolla.
Siamo al corpo-bacheca ingolfato di messaggi, scritte e ammeninicoli grafici illeggibili assortiti.

Effigi rupestri in corsivo, in latino, in carattere Morse senza tralasciare il sempreverde cuneiforme.

Di tutto di più: dai nomi della prole, a quello del cane, a quello degli amici degli amici per arrivare al protagonista del film che ti ha fatto ridere: magari solo perchè ti eri scolato un paio di gin-tonic più del solito.

Il limite al peggio è sempre lì da dover essere oltrepassato, si sà.

Le mortifere “frasi motivazionali” che in teoria dovrebbero dire agli altri chi siamo veramente: ma non sarebbe molto meglio dirlo con parole tue?
Sui corpi martoriati a colpi di macchinette e aghi ogni estate in spiaggia ci si può fare una autentica cultura: forse è per questo che l'editoria è in crisi.

Chi si tatua Platone o Epitteto sul gomito probabilmente non ha mai letto una singola riga nè dell'uno tantomeno dell'altro: ma chi se ne importa.
Ciò che conta è quello splendido, incomprensibile, ghirigoro che fa bella mostra di sé e che ti è costato lo stipendio di intere settimane, mesi, anni di lavoro.
Intere generazioni in lotta per l'ottenimento di una paga non troppo miserabile e qualche diritto sacrosanto, buttate nel cesso. O sull'altare del prossimo scarabocchio.

Comunque se questo inutile DeEditroiale Vi è piaciuto leggerlo come a mè è garbato (tra)scriverlo, mi permetto un suggerimento: tatuatevelo sul corpicino inerme, un paragrafo alla volta, dove meglio ritenete opportuno.

UH!


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