Ho avuto l'esigenza di voler spiegare cosa stesse accadendo nei primi Ottanta, cercando qualcosa che caratterizzasse, se non altro, la mia percezione di quel periodo e mi ritrovo a voler incastrare “The Message” di Grandmaster Flash & The Furious Five con “My life in the bush of ghosts” di Eno & Byrne, quel mood “Calypso” tanto caro ai Talking Heads e un po' di sano punk.
A venirmi incontro è stato un album non molto conosciuto, tant'è che non esiste ancora una recensione su DeBaser dove si è argomentato praticamente su tutto e di tutto.

L'album è “Duck Rock” di Malcom McLaren. McLaren era un giovane pensatore “situazionista”, cultore della provocazione, marito di Vivienne Westwood, creatore dell'iconografia punk, mentore dei Sex Pistols. Uno che quando vide Richard Hell, rimase colpito più dalla maglietta strappata che dal concetto di “blank generation”.
Insomma: uno di quelli che quando ricostruisci, lo devi tenere sempre a mente, nel bene e nel male. Duck Rock ha una line-up che descrive in pratica quello che di lì a breve sarebbe stato il progetto Art of Noise: Trevor Horn, sazio di incassi con la sua “Video killed the radio star”, pronto a mettere lo zampino su “90125” degli Yes (babè), Gary Langan, Anne Dudley, J.J. Jezcalick.

Il focus però, forse è un'altro.
Il pezzo più conosciuto di questo collage album di McLaren è “Buffalo Gals”: icona sonora della old school rap con quel “First buffalo gal go around the outside” importato da un brano folk dell'Ottocento e ritornato agli onori delle charts qualche decennio più in là grazie a “Without me” di Eminem (e in altri cinquecento miliardi di samples).
L'album è un continuo susseguirsi di echi world music e rap e a me ricorda una di quelle compilation “Cruisin'” registrate dalla KHJ di Los Angeles. Sembra più un programma radiofonico che un album, che a sua volta intermezza samples di vecchi brani, tra il pioneristico cowboy style e i Kool & The Gang, voci registrate, ritmi latini, cori sudafricani.

Malcom McLaren era un trend setter (oggi diremmo influencer) che ha messo la firma, spesso esasperata, su quasi tutti i movimenti musicali più importanti di quegli anni lì.
Quest'anno, in occasione del quarantesimo compleanno della nascita del punk londinese, suo figlio ha pensato bene di voler organizzare un falò con vecchi cimeli d'epoca, suscitando le ire di John Lydon che non gli ha risparmiato fuckoff e battutacce sul suo lavoro (ha un brand di biancheria intima): “Fottuto egoista, brucia il tuo reggiseno”. Perché sì: quell'epoca è fatta anche di cimeli e feticci di valore milionario (cinque, per l'esattezza, quelli che Er mutanda vorrebbe dare al pubblico rogo all'interno di una manifestazione organizzata con il benestare della Regina in persona).

Che sia punk o cultura hip hop, al netto del genuino motherfucker e break the rules, c'è sempre qualcuno che influenza e decide cosa ha un valore e cosa no: lo spiega bene Miranda ne “Il diavolo veste Prada” a proposito di un maglioncino ceruleo. McLaren ha brandizzato il ceruleo delle rivolte giovanili di quell'epoca che a tratti raccontavano più anomia borghese che tormento popolare.

Sì, ok: anarchia nel Regno Unito, affanculo la regina, vendo la medaglia al valore di papà per comprare gin e preservativi, il derby delle coste e qua e là, ma quella t-shirt I hate Pink Floyd e quelle catene d'oro sulle Adidas senza lacci, possono andare un casino quest'anno, pensavano Malcom e consorte.

C'è sempre un Mugatu di Zoolander che decide. E un figlio di Mugatu che vende mutande. C'est la vie.

E magari a pensarla così erano anche i bersagli del sistema londinese che dal punk hanno guadagnato introiti e flussi turistici interminabili tra Piccadilly e Camden Town.
I straordinari Crass intonavano (per modo di dire) “Il nome è Crass, non Clash”, offesi dalla svolta “commerciale” di Strummer. Svolta che avrebbe portato, dritti dritti a London Calling.

Forse McLaren se la rideva un po'. Forse, proprio con London Calling, Strummer dimostrò definitivamente cosa significhi sfuggire da una spirale di conformismo dell'anticonformismo e mostrare musica e forma poetica, riconsegnando alla vita un po' di sana beat generation.

E, beffa della beffe, Malcom McLaren, spesso dipinto come un burattinaio manipolatore più attento al costume che al contenuto artistico, lascia ai posteri una validissima opera, molto intelligente, parecchio “seminale”, un buon lavoro etno-musicologico scevro dagli intenti da critica sociale presenti in “My life in the bush of ghosts” ma altrettanto amato dagli addetti ai lavori anche se poco conosciuto dal pubblico, più o meno esigente. Un album di nicchia, per capirci. Di nicchia ma non un cimelio.

Un album “contro” qualsiasi categoria prestabilita. Pensa un po'.

E per concludere l'opera, i disegni di copertina sono di Keith Haring. Quel disco lì è gli anni Ottanta. Al netto di alcuni generi altrettanto significativi ma con diverse narrative, per il resto lì dentro c'è davvero tutto ciò che ha caratterizzato quel decennio e soprattutto gli stereotipi sonori e grafici più impressi nella memoria collettiva: disco dance, rap, “l'Africa dentro” così mainstream negli anni di “We are the world”, marimbe e allegria, come in un intermezzo sonoro di un film di John Hughes e di altre commedie 80's.

E ci fa marameo, il signor McLaren, ovunque egli sia, intonando “We're gonna punk it up and funk it up!”.

Carico i commenti... con calma