Dei Manassas c'era il primo disco e mancava questo, ed uno come me non poteva resistere alla tentazione. Dopo aver scritto dei Byrds mi sono cimentato con le prove seguenti dei loro membri, e siccome qui c'è Chris Hillman... Tra le cose che chiedo ai frequentatori ed agli Editors di DeBaser di perdonarmi la più palese è questa mia inclinazione "archivistica".

Ogni volta che parlo del riccioluto bassista-chitarrista, però, finisco per discernere su chi incontestabilmente lo sormonta: Roger McGuinn, Gram Parsons ed in questo caso Stephen Stills. Della compagine, nove elementi in tutto, Hillman è la seconda penna ma, ancor più che nelle precedenti formazioni in cui Chris militò, dentro ai Manassas il vuoto tra di lui e Stills è incolmabile ed enorme. Cosiccome nel primo, doppio album, anche in "Down The Road" su Hillman c'è davvero poco da dire, se non che Stills "gli concede" di piazzare in tracklist il gradevole rocketto spiaggiaiolo "Lies".

Se i Manassas son durati un paio d'anni non è solo colpa di "Down The Road", un disco senza dubbio inferiore al suo predecessore  - anche per ambizioni, sia ben chiaro -, ma la responsabilità è da ricercare interamente in Stephen Stills, un musicista e autore di grandi doti ma che a suo tempo non fu in grado di creare attorno a sé un vero collettivo, relegando anche i compagni più in gamba al ruolo di meri esecutori. Va da sé che la stragrande maggioranza di essi erano e sono tutt'oggi dei session men (Al Perkins in cima a tutti) e che quindi i Manassas altro poi non furono che una corte per un re. Certo che però a me desta impressione leggere che Hillman, per il disco di reunion dei Byrds, decise di piazzare due brani (da Stills?)  scartati dei Manassas, uno addirittura co-scritto dal batterista Dallas Taylor.

E comunque il motivo vero e proprio per cui recensisco "Down The Road" è che io non amo il suo predecessore, seppur riconoscendone le maggiori nobiltà e pretese. "Manassas" era sì forse uno degli ultimi manifesti musicali di una generazione, ma io ci trovo canzoni spesso più intelligenti che belle, e soprattutto per farmi scivolare "The Raven" giù nello stomaco mi devo colare una bottiglia di olio Johnson, con l'unica eccezione per la prismatica "Both Of Us (Bound To Lose)", guarda caso co-scritta da Stills con Chris Hillman. Il lato country lo trovo più nostalgico che evocativo, e più lineare che vivace, senza però affatto disgustarmi. Non resisto al vecchio sano folk rock stillsiano di "Consider" ed il rock blues dell'ultimo quarto mi pare pressoché allineato e coperto, incendiaria "Right Now" a parte. So d'aver appena commesso un peccato mortale, ma se le mie orecchie rispondono così dovrei forse murarle?

Sebbene dunque meno ricco d'ambizioni, sebbene piuttosto che mirare alla storia paia mirare alle charts, io trovo "Down The Road", il "disco easy" dei Manassas, molto ballabile e dinamico. "Isn't It About Time" è la Stills' song tramutata in un esperimento di black music; "Pensamiento" e la spettacolare "Guaganco De Veró" sono due deliziosi merengue-rock, "City Junkies", rock tutto in coro, si tinge di rhythm and blues nel grintoso finale.

L'altra Stills' song per come da manuale, "Business On The Street", è un tiratissimo gioco elettrico, e "Down The Road" è un buon boogie. Io ci ballo sopra, a sto disco, dalla prima canzone, "Isn't It About Time", fino alla conclusiva, saltellante e scurissima, "Rollin' My Stone".

Mai e poi mai mi sognerò di dire che "Down The Road" sia migliore di "Manassas", un disco che semplicemente non avrò capito a sufficienza, nonostante gli sforzi e gli ascolti molteplici. Però mi rifiuto di considerarlo una delusione, mi rifiuto di accettare l'idea del suo oblio. Faccio fatica a comprendere le similstroncature dei critici o il "pudore" di chi finge che questo album non sia esistito.

Mi sta bene, comunque, che la band si sia sciolta di lì a poco: se sei Stephen Stills e non fai grandi cose, a che ti serve essere te?

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