Non esiste musicista nel panorama musicale contemporaneo capace di calarsi pienamente nella magnifica ambiguità della chitarra alla pari di Marc Ribot. Perchè Ribot è sostanzialmente incollocabile: amato dal folk/rock cantautorale (chiedere delucidazioni a Waits o Capossela), geniale interprete del filone free-jazz ayleriano, sornione e melanconico nella musica cubana, crudo e aggressivo nelle sue incursioni noise-punk. Ed ecco che in questo suo secondo album in solo possiamo trovare in embrione un po' tutte le sue anime.

Il disco esce nel 1995 per la DIW, etichetta giapponese specializzata in jazz d'avanguardia, e mostra una sorta di campionario delle influenze musicali del buon Ribot che la maggior parte delle volte prendono le mosse dal suo songbook jazzistico. La maggior parte dei brani sono infatti standard (Ribot confiderà in un'intervista di aver voluto selezionare solo brani suonati da Monk o da Albert Ayler), ma come per ogni grande musicista lo standard non può che essere soltanto un pretesto: il nostro infatti partendo da brani molto conosciuti come Body and Soul o I'm in the Mood for Love si estende spesso e volentieri in territori dove la struttura accordale o la forma non è altro che un fragile spettro sulle sfondo, un contenitore all'interno del quale l'unico appiglio per esecutore e ascoltatore è la linea melodica del tema, nel rispetto della quale ogni deviazione è concessa. Non è raro imbattersi in brani nei quali il supporto armonico è quasi nullo, il che permette a Ribot di inerpicarsi in linee monodiche di estrema lucidità e originalità. Tre sono invece i brani originali, molto distanti come carattere dal resto del disco e che nell'ascolto sequenziale sono delle vere e proprie oasi all'interno delle quali emerge la parte più noise e sperimentale di Ribot (da segnalare Spigot, caleidoscopica nella prima metà e quasi puntillista nella seconda)

Gli echi delle sue precedenti collaborazioni sono spesso riconoscibili: si ritrova in molti punti una visione scanzonata e spesso ironica del jazz già tratto distintivo dei Lounge Lizards, oppure la continua alternanza tra serio e faceto figlia della lunghissima e proficua collaborazione col già citato Tom Waits. Si tratta quindi di un disco che, come del resto il suo interprete, ha come pregio e difetto intrinseco la difficile catalogazione, soprattutto se contestualizzato nell'epoca di uscita, quando la discografia solistica di Ribot non presentava ancora molti lavori di stampo jazzistico. Lascio decidere a voi se sia un pregio o un difetto. Io un'idea già ce l'ho.

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