L’arte è la massima espressione della soggettività e quindi, tutto ciò che un artista produce può piacere o meno a seconda dei punti di vista, delle circostanze esistenziali e dei momenti storici. Eppure quando un’opera raggiunge ed oltrepassa il concetto stesso di eccellenza, allora la proschinesi dell’auditorio diventa gesto dovuto ed obbligato. Sì, un inchino, non può esserci altro gesto dinanzi a questo disco dei Marillion, perché senza ombra di dubbio è questo il loro capolavoro, il penultimo con quel coniatore di diamanti verbali soprannominato Fish. 

L’opera in questione, però, risulta soltanto in minima parte opera sua, o meglio del suo stato cosciente perché, come confesserà più volte, la partenogenesi testuale di "Misplaced Childhood" è avvenuta a seguito d’un “viaggio” acido dell’ex mente dei Marillion. Ma che tanta eloquenza sia nata da uno stato alterato, in fondo stupisce ben poco. Non soltanto opere musicali, ma anche  innumerevoli opere letterarie devono la loro alba ai “paradisi artificiali”; e così pensiamo ad i “Fleur dù mal” di Baudelaire, oppure al romanticismo di Coleridge in “The Rime Of Accident Mariner”. Qui, anche Derek William Dick, eccelle abusando, e lo fa ricorrendo a paradossi, aneddoti visionari e magniloquenze verbali a volte fini a sé stesse, quasi Dannunziane se vogliamo. Il tutto per raccontarci, attraverso la metafora della gazza ladra, la storia d’un dramma privato (evidentemente autobiografico), di chi alla fine del suo “viaggio”, scopre che il suo tormento è stato proprio perdere l’infanzia (il bambino rappresentato in copertina diventa il carattere centrale del disco e vuole rappresentare la rinascita dopo i dolori e le delusioni patiti dal giullare, che esce dalla finestra gettandosi verso l'arcobaleno); e allora tanto vale tornare, anche nell’anagrafe che corre, di nuovo nel regno dei “perché” (“non c’è fine dell’infanzia” ripete ossessivamente Fish alla fine del disco... che il gigante scozzese si sia lasciato condizionare dal ”fanciullino” di Pascoli?!).

Leggete il testo di "Lavender", come paradigma suggestivo di quest’album; difficile non emozionarsi di fronte al romanticismo di tanto “surrealismo” verbale: il protagonista che, oziando distrattamente nel parco, dal richiamo dell’irrigatore scorge i luccichii di “entità infantili” che dall’arcobaleno cantano la canzone che lui dedicherà a  “lei”: veramente un’immagine, forse un po' troppo fiabesca, eppure capace di emozionare chiunque, impossibile negarlo (“I was walking in the park dreaming of a spark, when I heard the sprinklers whisper shimmer in the haze of summer lawns. Then I heard the children singing, they were running through the rainbows, they were singing a song for you. Well it seemed to be a song for you. The one I wanted to write for you, for you...”).
Non diverso il discorso per quella “chicca” che in meno d’un anno raggiungerà il n. 2 della prestigiosa chart inglese, dal nome “Keyligh”: anche qui il testo, benché forse un po’ meno “toccante” di "Lavender", non lascia indifferenti, così come quello splendido “Copione per le lacrime d’un giullare” di soli due anni addietro a questo disco.

L’artwork è tipico dei Marillion dell’era Fish; del resto autore e disegnatore delle copertine era lui il principale artefice: diciamo che proiettava graficamente e visivamente le parole ingabbiate dalla poeticità dei suoi testi. Per chi (come me) possiede il vinile di quest’album, è bello apprezzare la copertina allucinosamente surrealista; Dalì avrebbe sorriso compiaciuto vedendola, ne sono certo.
Ma “Misplaced Childhood"  è anche e soprattutto musica; una musica molto “servente” ai testi ed al concept che sorreggono: lo si capisce già dall’intro “Pseudo Silk Kimono”  dove i 5 musicisti ci catapultano d’improvviso in un mondo oniricheggiante, melanconico e fiabesco, anni luce lontano dalla microstoria quotidiana  di chi l’ascolta.
L’influenza vocale e stilistica dei Genesis di Gabriel (e soprattutto di Hackett!!) e dei primi lavori con Phil Collins (specialmente con “Trick of the tail”), nonché dalle linee di Peter Hamill è ancora evidente, però qui i Marillion riescono in una certa misura a personalizzare definitivamente il loro stile e a diventare a loro volta una “fonte d’ispirazione”. Su tutti i lavori successivi “ispirarti” da questo lavoro mi permetto di citare l’immenso “Operation Mindcrime” dei Queensryche del 1988.

Lo stile, infatti, lo definirei un rock progressivo contaminato dalla psichedelia, oppure per usare una perifrasi in voga all’epoca, un “neo – prog” (non dimentichiamo che il periodo in cui il disco vede la luce, il 1985, è pervaso interamente dall’ondata dell’elettronica); cambiamenti di stile repentini e melodie improvvise ed inaspettate (la maggior parte dei brani è, tuttavia impostata secondo l’incisiva semplicità  dei 4/4) creano una simbiosi perfetta con la surrettizietà delle parole

E’ un peccato sapere che dopo tre anni da quest’album il cantante e paroliere di questa grande band, forse accecato dal suo narcisismo, tenterà (fallendo clamorosamente) un’improbabile carriera solista. Tuttavia come tutte le cose, anche (e soprattutto) quelle belle, c’è un inizio è c’è una fine. Nonostante i grandi lavori che ci regaleranno ancora nel successivo ventennio (tra tutti cito l’album “Brave” con il vocalmente superiore, ma anni luce ineguale a Fish quanto a fantasia e doti artistiche) sostituto mister H. i Marillion, a mio avviso con questo disco segnano il mondo del prog con un sigillo ineguagliabile che, assieme ad altri pochi lavori, perdurerà “nei secoli dei secoli” nell’olimpo del rock.

P. S. La surreale bellezza del disco ispira bellezze altrettanto contemplative; l’autore dedica questa recensione all’immaginario sorriso di Ioanna.

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