Dei tre lungometraggi girati nello scorso secolo, questa versione generata dalla diabolica e giullaresca mente di Mario Monicelli, è sicuramente la più celebre, oltre che la più recente. Nel 1984 Ugo Tognazzi e Alberto Sordi, due tra i più decorosi alfieri della storica commedia all’italiana del dopoguerra e ormai splendidi ultrasessantenni in odor di santità, si prostrano, entrambi per l’ottava volta, dinanzi al maestro toscano che attinge dal bagaglio letterario popolare del poeta e scrittore rinascimentale Giulio Cesare Croce, cimentandosi nei secoli “bui” del Medioevo longobardo, offrendoci personaggi semplici, rozzi e (a dir poco) grotteschi e personificando grezzamente il millenario “triangolo” sociale: Potere (Governo), Chiesa, Popolo.

Tognazzi è il trasandato contadino Bertoldo, dalla pronuncia che richiama un bislacco grammelot padano-veneto. E’ un uomo o meglio, come cita l’epitaffio sul suo ultimo giaciglio “un villan di sì difforme aspetto, che più d'orso che d'uomo avea figura”, dallo smisurato genio e lungimirante astuzia, disinvolto estro ed illuminante ironia. Bertoldo è anche saggia insolenza ed umile follia, turpe cialtroneria e leggiadra nobiltà d’animo. Bertoldo è la sincera audacia di rendere ridicolo persino un perfido re longobardo di nome Alboino, interpretato dal giovane partenopeo Lello Arena, che lo desidera al suo cospetto in un improbabile bisogno d’intrattenimento e compagnia.

Alboino è un governante istintivo e a tratti immaturo, stolto, un po’ viziato, lunatico, capriccioso e magnanimo a singhiozzo, frustrato dalla presenza della consorte femminista di origini africane, che sa rendersi eccezionalmente inadatto e ignorante di fronte al suo nuovo conoscente, ma nell’assurdo gioco del paradosso, è lo stesso imbarazzato ed affascinato re ad aver bisogno delle dritte di Bertoldo per farsi levare le castagne dal fuoco più d’una volta e non il contrario. Alboino in rari barlumi di senno, sa infatti rendersi conto fin dall’inizio, di avere a che fare con un osso duro, in quanto il saggio villano oltre che a tener testa al sovrano, riesce ad aggraziarselo e a rallegrarlo con naturalezza. Il furbo contadino diventa indirettamente, inconsapevolmente e senza desiderarlo, un nuovo fidato consigliere del re.

Il triangolo si chiude con il truffaldino Fra’ Cipolla da Frosolone, incarnato dall’Albertone nazionale, che con una cadenza umbro-ciociara e grazie ad un carismatico timbro baritonale, tenta di soggiogare, il popolo bigotto e credulone spacciando cimeli e reliquie di santi e divinità; un’altro giovane artista del cinema di casa nostra Maurizio Nichetti, nel ruolo dello stupido e sciagurato figlio Bertoldino, si rileva una spalla perfetta per Tognazzi, districandosi a modo suo tra le vicissitudini del caotico padre e offrendogli il suo contributo per sbugiardare il religioso dapprima rivale, per la patacca rifilata ingenuamente alla moglie Marcolfa e barattata con del vino, una coperta e Nerina, l’amata oca cui Bertoldino dopo la sua permuta ne cova le uova e successivamente, divenuto complice, gli propone cioféche e raggiri che lo stesso Bertoldo rischierà di pagare a caro prezzo. Non ho ancora menzionato Cacasenno, il nipote di Bertoldo che avrà l’onore di “farla grossa alla faccia del re”, (se posso usare un doppio senso).

Il lungometraggio non ebbe fin da subito vita facile e non fu mai annoverato tra i suoi capolavori, in quanto il comodo e pretenzioso paragone con l’imponente Brancaleone “gassmaniano” lo sminuì, rendendolo agli occhi di molti un lavoro di qualità inferiore e di gran lunga meno epico e coinvolgente. Se seguissi anch’io con metodo obiettivo una valutazione puramente legata a una visione critica, darei un voto medio a questo film e sosterrei un eresia se lo definirei una perla brillante da David di Donatello, ma Monicelli ha avuto il grande merito per l’ennesima volta, di farci ridere e riflettere con il suo risaputo sarcasmo, grazie ad un più che dignitoso racconto di un gaglioffo e celebre personaggio della tradizione farsesco-popolare e amato figlio delle misere campagne padane, che ruotano intorno al Pò, innocente vittima di un contesto storico complicato, ruvido e ancestrale, reso ancor più emblematico dalla singolare e meritevole performance di Ugo Tognazzi.

Monicelli scova e ci offre l’espediente surreale di dare un senso reale a quel triangolo sociale radicato dalla notte dei tempi: schernire il Potere, sputtanare la Chiesa e promuovere un esilarante riscatto del popolo, cosicché io alzo il tiro ed elevo al penultimo puntino il mio personale sostegno a questa opera “minore” del maestro, che stimo, ammiro e che farei fatica a svalutare, pure se avesse girato la pubblicità dei Rotoloni Regina. 

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