...il lupo perde il pelo ma non il vizio....

 

A dire la verità, non mi ha mai irritato il fatto che il sagace Mark Knopfler, da un certo punto della sua carriera in poi, abbia sempre cercato di dilatare i tempi intercorrenti tra le pubblicazioni dei suoi dischi, in quanto le anelate attese sono state sempre ricompensate dall'uscita di lavori pregevoli se non addirittura superlativi. Ne sono la testimonianza il valido "On Every Street" uscito a quasi sei anni e mezzo dal multi-seller " Brothers In Arms", e proprio quest'ultimo la cui uscita giunse a quasi tre anni dal magnifico "Love Over Gold".  "Sailing To Philadelphia" non fa di certo eccezione a questa consolidata abitudine, visto che rappresenta il capitolo successivo al discreto "Golden Heart" comparso nelle vetrine più di quattro anni prima, per la precisione il 26 marzo 1996.

Un lavoro in cui Knopfler sembra essere stato illuminato e dotato di un nuovo spirito creativo, che ce lo fa apprezzare in una veste più vicina di quanto possiamo immaginare, a quel suono scivoloso e spontaneo che ha sempre contraddistinto l'eccellente livello della sua produzione, come la maggior parte del suo complesso percorso artistico. STP è un disco molto raffinato in cui convergono ricercatezza e perfezione stilistica, che non hanno nella  maniera più assoluta la presunzione di forzare il raffronto con nessuno dei capolavori realizzati a nome Dire Straits. Un'elegante cocktail che trova nelle esplorazioni country venate di rock ed in quelle blues tinte di folk gli ingredienti più assidui, gli stessi che hanno contribuito ad una fluida stesura dei pezzi e ad una naturale sistemazione  di tutti gli elementi, che in maniera molto ricercata ne hanno personalizzato in positivo il prodotto finale. 

Parte il riff di "What It Is", un brano diretto in cui la scorrevolezza della strofa prepara il terreno per un ritornello dalla melodia ben strutturata come l'assolo ideale che segue, inducendo chi ascolta, a pensare che  l'intera composizione non avrebbe affatto sfigurato su alcuno degli album dei DS. "Sailing To Philadelphia" (ispirata dal romanzo  "Mason & Dixon" dello scrittore americano Thomas Pynch) è cantata a due voci con James Taylor (che impersona l'astronomo Mason) e Knopfler (che recita la parte del geordie Dixon),  che dispiegano a pieno quel lato più musicalmente  poetico, che ha sempre caratterizzato  la loro comune ed innata disinvoltura  esecutiva per uno dei brani più incantevoli di questo disco. Un'armonica sconsolata introduce "Balooney Again" che mostra senza tanti fronzoli la facciata più intima del più recente percorso musicale del chitarrista, mentre l'inizio chitarra/voce di "Who's Your Baby Now" trasforma gradualmente una ritmica ballata da saloon, in una perfetta sintesi tra i Notting Hillbillies e quelle pillole di country patinato presenti su "On Every Street".

Per chi abbia avuto il piacere di approfondire la "complicata materia Knopfler", si sarà sicuramente accorto che tra gli argomenti ricorrenti nelle sue lyrics  del passato, si è parlato spesso di viaggi (Southbound Again), sviluppo (Telegraph Road) o del raggiungimento della consapevolezza (Love Over Gold), così come a tutt'oggi  l'oscura "Prairie Wedding" (con  l'aiuto Paul Franklin alla pedal steel) affronta proprio il tema della determinazione e la voglia di raggiungere una meta, in particolare se posta alla fine di un tortuoso percorso. L'impeccabile contributo di Van Morrison nella tenera "The Last Laugh", una di quelle tracce così ben riuscite da far pensare anche ad un intervento dell'illustre ospite anche in sede compositiva, supposizione nettamente smentita dallo stesso Mark durante le interviste di promozione al disco. Un'altra gran bella prova d'autore è data dalla springsteeniana "Silvertown Blues", la traccia che meglio racchiude la personificazione del mito americano, attraverso quella naturale inclinazione narrativo/musicale che riporta  all'uniforme ritmo di "Where Do You Think You're Going", dove british roots e american rock confluiscono in un'unica anima.

Le amabili armonie di  "Sands Of Nevada" ed il blues del Mississipi di "Junkie Doll" sono affiancate da "Speedway At Nazareth", il cui iniziale treno-ritmico, grazie alle voci di Gillian Welch e David Rawlings, anticipa un coro a tre voci a cui tutti gli strumenti contribuiscono per la stesura di un degno tappeto sonoro,  la cui lodevole evoluzione è rappresentata dal perfetto amalgama che pedal steel, violino e chitarra riescono ad instaurare in pieno equilibrio, facendone un brano davvero esemplare.

Che altro dire, un lavoro in cui il leader dei Dire Straits non si pone come chitarrista in assoluto, ma più come songwriter dall'ingente bagaglio professionale sulle spalle, che mira alla ricerca dell'esemplarità compositiva (visti anche i numerosi e prescelti  ospiti di cui si è avvalso), seguendo la strada delle proprie passioni. La stessa strada che affonda le radici in un rock americano vellutato che il gruppo dell'impeccabile  "Communiqué" aveva reinventato, tracciando un percorso musicale che oggi riesce ad avere in questo disco un esaltante seguito a cui una maggior dose di vivacità non avrebbe di certo guastato.

 

............di comporre ancora un buon disco.

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