Personalmente ho sempre amato Scorsese: non è solo un regista poliedrico, capace di mantenere uno standard qualitativo impensabile per la stragrande maggioranza dei suoi colleghi, ma è anche uno dei pochi rappresentanti rimasti di quell'epoca d'oro della "New Hollywood" che facendo sue le lezioni della Nouvelle Vague ha ridefinito il cinema moderno, influenzandolo in molteplici aspetti. Ha passato gli anni '70 lasciandoci capolavori, gli eighties si sono aperti con il botto ("Raging Bull") e poi sono proseguiti come il suo decennio più difficile, tra droga e problemi di produzione per "L'ultima tentazione di Cristo" con l'aggiunta di titoli come "Fuori orario e "Re per una notte", piccoli gioielli (soprattutto il primo), ancora oggi considerati fatiche minori del buon Martin. Al contrario di suoi compagni d'epoca (leggasi Friedkin, Coppola e De Palma, così come altri), Scorsese ha approcciato senza particolari problemi il nuovo millennio che ancora oggi lo vede come uno dei registi più attesi ogni volta che viene annunciato un suo nuovo lavoro. "Al di là della vita" è uscito nel 1999 ed è il film che precede gli anni duemila e l'avvento della collaborazione con Di Caprio.

Frank Pierce (Nicolas Cage) è un paramedico di New York che sembra essere perseguitato dal fantasma di una ragazzina morta per overdose tra le sue braccia. Frank è il prototipo moderno dell'alienato, del lavoratore notturno che sfida i dedali di una Grande Mela dai contorni appassiti e marci, circondato da una serie di colleghi impazziti e fuori dagli schemi.

"Al di là della vita" è il diario notturno del paramedico Frank, il racconto delle sue paure e fragilità, della sua voglia di essere licenziato perchè ormai privo della forza di reazione di fronte alle brutture che il suo lavoro gli pone davanti. Un quadro funereo che Scorsese mette in scena affiancando alla figura di Frank quella di una moltitudine di homeless, derelitti vari, tossici in genere, poveri, eroinomani, psicopatici. Tutti gli ultimi degli ultimi finiscono nelle sue mani, quelle di un instabile uomo in fuga dalla vita e dal suo lavoro. Fotografia della New York che Scorsese ha sempre amato (e in cui è nato), il panorama cinematografico del film sembra quasi quello di un documentario sulla miseria della città più cosmopolita del mondo. La città che ridicolizza l'uomo perso, alienato, solitario, insicuro, così come lo era il Paul di Griffin Dunne in "Fuori orario".

Non basterebbe la semplice riproposizione del tema per bocciare un film di Scorsese, che è sempre opera multistratificata e sfaccettata. Il lato tecnico è inattaccabile, come spesso è accaduto nella lunga carriera del regista italo-americano: il montaggio dell'amica Schoonmaker è perfetto, come sempre, così come la regia di Scorsese, che non ha mai abbandonato il realismo movimentato dei seventies. La fotografia è straniante come il clima complessivo della pellicola, anche se si può discutere sulla continua ricerca della contrapposizione tra l'oscurità degli esterni e la luce abbagliante degli interni. Questa grande mole di immagini e musica, si unisce ad un ritmo sostenuto che ingloba la multiforme copiosità di personaggi e situazioni che si susseguono senza soluzione di continuità, tra overdosi, "pasticche rilassanti", gente trapassata da ringhiere, susseguirsi iconico di fallimenti sul lavoro, volti che si trasformano, voci dal coma e via così. Emerge un quadro sconnesso, pieno di mezze cose lasciate un po' così (vedi infatuamento tra Cage e la Arquette) e il ritratto ambulante di un paramedico insoddisfatto dalla sua incapacità di salvare vite. Quelle vite che gli consegna direttamente la città: non la manniana città che ingloba l'uomo, ma la scorsesiana megalopoli che ripropone all'uomo sconfitto le sconfitte e i fallimenti degli altri. Non c'è "american dream" ne tantomeno bellezza nella New York di "Al di là della vita".

Del periodo post "Kundun" (1997), il film con Cage protagonista è di sicuro il suo meno conosciuto e amato dal grande pubblico. Tra i fugaci lampi di ironia si fa spazio uno degli episodi più cupi e pessimisti della lunga carriera di Scorsese, quì in bilico tra cose già dette (e meglio), la solita perizia formale e una confusione di fondo che rende blanda un'idea di partenza (Joe Connelly) potenzialmente interessante.

5,5

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