Quando il semidio di Little Italy, nonché uno dei più grandi registi viventi, scatena una delle più letali combinazioni di attori che la settima arte abbia mai concepito, e lo fa mescolando l'accecante bagliore di una città infernale come Las Vegas con l'adrenalina cocainica di una storia realmente accaduta, da cardiopalma, il risultato non può essere che straordinario, fottutamente sbalorditivo.

Robert De Niro e Joe Pesci, che già diedero fuoco alle scene ai tempi di Toro Scatenato, amplificano l'incontenibile successo della coppia Jimmy Burke - Tommy De Vito di Quei Bravi Ragazzi, sbattendoci in faccia la magistrale esecuzione di un nuovo, terribile simposio, non più costituito da mentore e discepolo, ma da boss alla pari, schegge roventi che bruciano martoriando la stessa carne.

L'inizio del film è epico. Calma e devastazione si fondono in una lunga, sinfonica e incontenibile fiammata. Sam "Asso" Rothstein entra in macchina, gira la chiave di accensione e una tempestosa nuvola di fuoco avvolge lo schermo. La frase che lascia ai posteri è quanto di più dolce e straziante possa uscire dalla bocca di un gangster.

È Las Vegas il luogo di tremenda meraviglia che si costruisce dinanzi ai nostri occhi stupefatti, una Las Vegas diversa dalla solita fiaba di Hollywood, non gioiosa e accogliente ma confusa e orribile, una splendida puttana che ti scopa a morte, che ti violenta rendendoti cadavere, quasi fosse l'ultima notte di questo mondo.

E proprio una prostituta ammireremo, la più calda e terribilmente fascinosa meretrice che sia apparsa sul grande schermo, una Sharon Stone da centomila premi. Non solo...

Dopo aver dato alla luce la controversa favola religiosa de L'Ultima Tentazione di Cristo e il ghiacciato sogno di sangue e vendetta di Cape Fear - Il Promontorio Della Paura, la titanica e fuligginosa industria dell'intrattenimento, la Universal, vuole indietro l'oneroso favore artistico, esige dal regista di New York un riscatto perentorio comprendente altri due film, di incondizionata stavolta furoreggiante tendenza commerciale.

Quella di Casinò, per Scorsese, doveva essere quindi una faccenda burocratica, un incarico da sbrigare tra la realizzazione di un film e il trattamento di un'idea, l'elementare adempimento di un obbligo contrattuale chiaro e inequivocabile. Una marchetta. Una commissione del cazzo.

N'è sortito un capolavoro.

Ruvido, elegante e brutale, raffinato, travolgente e selvaggio, compiaciuto, veloce e sferzante, il film srotola la caotica e sanguinosissima vicenda dei fratelli Spilotro, membri fondatori della "Hole in the wall gang", in particolare del primo dei due, il feroce Anthony "The Ant" Spilotro, malefico e lussureggiante angelo custode dell'esperto giocatore d'azzardo Frank "Lefty" Rosenthal, e la scalata criminale che i due effettuarono nella Sin City circondata dalle sabbie dorate e luccicanti del purgatorio, la dissoluta e terrificante cittadella rischiarata dalla funesta luce artificiale del vizio e della depravazione, e scorticata dal delirio di onnipotenza del denaro che scorre a fiumi e dalla superbia, l'osannata e sfolgorante Las Vegas, impetuoso e sotterraneo lembo di mondo per anime dannate ed esiliati di ogni sorta.

Erano gli anni Settanta. L'età dell'oro della Cosa Nostra Statunitense iniziava spingendo al massimo l'acceleratore della sua macchina tritacarne macinasoldi, come le Cadillac che guidano Sam Rothstein e Nicky Santoro nella loro corsa forsennata, specie quella di Nicky, che si concluderà in un impasto di sangue zampillante, polvere, sabbia, detriti e ossa fracassate in mezzo al nulla di una piantagione di granturco.

"Sempre dollari, sempre quei cazzo di dollari" dirà proprio Nicky Santoro appena prima di accogliere la suprema e animalesca sentenza della mazza da baseball di Frank Marino (un eccelso Frank Vincent, reduce dalla carneficina di Billy Batts in Goodfellas e ormai pronto per indossare la divisa da capo assoluto della mafia di New York nei Soprano), e sono i soldi a decidere le sorti dei protagonisti, quei fottuti soldi che entravano a valanghe nel Tangiers, il sublime casinò e hotel diretto da Sam "Ace" Rothstein, e uscivano all'interno di un'anonima 24ore in pelle scura che conduceva il suo meraviglioso viaggio nelle tasche dei boss italoamericani del Midwest intriso di crimine e di sugo pregno di olio.

Lo stile è quello di Goodfellas, come pure la base di partenza, la cronaca anoressica e malvagia di Nicolas Pileggi, "Casino: Love and Honor in Las Vegas", ma qui c’è più colore e intensità, più emozione e calore, anche se la schizofrenia distruttiva e il livello di cruda spettacolarità del precedente e ineguagliabile capolavoro di Scorsese non potranno mai essere raggiunti. Da nessuna opera.

Dentro e fuori Martin.

A ragione, la chiara unicità di Quei Bravi Ragazzi risiede nella genuina sua cattiveria, nella rapida e inesorabile narrazione di una mafia rappresentata in un modo mai così basso e ignobile, mai tanto scellerato e meschino. Gli operai del crimine che tentano la scalata alla gerarchia mafiosa e finiscono col distruggere tutto.

Tutto è morte, a Las Vegas. La migliore delle peggiori morti possibili.

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