Vestito con un'improbabile giacca colorata, Rupert Pupkin sente di essere finalmente qualcuno: tutti lo applaudono, lo speaker della trasmissione televisiva ripete ossessivamente il suo nome fra gli scrosci di battimani, e lui guarda, fiero e consapevole, verso il suo pubblico, finalmente pronto ad accogliere il suo esordio alla guida di uno show personale, superando quello che è stato il suo mito, Jerry Langford.

Come si sia arrivati a questo, ce lo racconta Martin Scorsese in uno dei suoi film più caustici ed al contempo poetici, poco capito dalla critica ed, ancor, meno, dal grande pubblico, "Re per una notte" ('83).

Il Re - the King - è appunto Rupert, aspirante comico dilettante con qualche rotella fuori posto, che vive con la mamma in uno squallido e fatiscente condominio newyorkese, sperando di essere notato dal suo idolo Langford, conduttore di uno "One Man Show" che, nel fine settimana, sbanca in tivvù.

Gli insistiti tentativi di Rupert- che prepara scrupolosamente i suoi numeretti comici e le sue barzellette nella quiete apparente della sua casa - nel farsi notare dal conduttore risultano fallimentari, essendo Langford e la sua cerchia di collaboratori poco interessati alle strampalate sortite del comico dilettante, fastidioso nell'introdursi nell'auto di Jerry, negli uffici della sua casa di produzione e financo nella sua dimora in campagna. Vista l'inutilità di questi tentativi, assieme alla disperata compagna di sventure Marsha, Rupert pensa dunque di affermarsi nel mondo televisivo in maniera poco ortodossa, mettendo in atto un piano che, in qualche, modo, gli farà vivere ben più del solito, warholiano, quarto d'ora di celebrità.

Caustico e poetico, come sopra accennavo, questo film.

Caustico nella descrizione di una umanità complessivamente priva di grandi valori e grandi prospettive, il cui unico scopo di vita sembra essere quello di recuperare l'ultimo autografo di Langford per aggiungerlo alla propria, lunghissima collezione; nella descrizione del mondo televisivo come ambiente professionale dove non esiste il talento, l'originalità espressiva, ma solo la monocorde espressione del conduttore e dei suoi collaboratori, attenti a realizzare un prodotto commerciale che non scontenti nessuno; nella descrizione dei sobborghi della Grande Mela in cui, se non sei un pugile scatenato o non guidi un taxi giallo pettinato da moicano, difficilmente può capitarti qualcosa di significativo, mentre la tua vita scorre sempre uguale.

Poetico nella parte in cui il bizzarro Pupkin, più folle che savio, ma al contempo innocuo e non certo sanguinario come altri personaggi della filmografia scorsesiana, persegue un po' alla Don Chisciotte il suo assurdo obiettivo di divenire stella della televisione, dando del "tu" al suo distante idolo Langford; nella parte in cui la perseveranza ed il multiforme ingegno del protagonista, scontrandosi con l'indifferenza dei potenti di turno, sembrano non portare da nessuna parte; nella parte in cui descriva un'umanità, che, in quanto non rappresentata dai media, sembra trascinarsi nella sua vita ordinaria, alla ricerca di un qualcosa che non c'è, rappresentato dalle icone del tubo catodico e dalla loro parvenza di realtà (c'è qualcosa di platonico, in questo).

Splendidamente interpretato da un De Niro in piena forma, che descrive in toni sommessi e mai plateali la follia latente di Pupkin, quasi in attesa di un'esplosione che non arriva mai e che rende paradossalmente assai tesa tutta la storia narrata, il film dovrebbe essere ricordato anche per la inusuale prova di Jerry Lewis, alla sua ultima grande apparizione al cinema: a differenza del personaggio costruito in decenni di carriera, picchiatello esagitato e decisamente fuori dalle righe, Lewis interpreta in questo lavoro un individuo di poche parole, quasi muto, ineffabile, dal cinismo sottile, perfetto rappresentante del mondo impermeabile alle follie del protagonista, e, nella sostanza, il suo perfetto alter ego o rovescio.

Pupkin e Langford rappresentano, nei fatti, i due lati della medesima, sottile, pazzia: come il primo vorrebbe uscire dall'anonimato, così il secondo vorrebbe essere anonimo, quasi che un equilibrio fra il desiderio di esserci, e quello di sparire, sia, nel mondo descritto da Scorsese, impossibile.

Non so perché, ma ricordando questo film durante una puntata di una nota trasmissione del giovedì sera, mentre una barista ultracinquantenne dichiarava fiera alle telecamere di aver partecipato alla selezione di un qualche reality per dare "la svolta" alla sua vita, sono stato pervaso da uno strano senso di vuoto.

Vai a sapere, forse non aveva i numeri di Rupert Pupkin, è questo che mi sconcertava.

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