To my detriment
To my detriment

Suona quasi come una litania. Sono molteplici i mantra che Troy, Brann e Brent (in meno occasioni) ripetono nel corso di questa preghiera collettiva. Un rito laico, una grande messa da requiem che cerca e trova nella spiritualità istintiva di questi quattro brutti ceffi (con un gran cuore) il suo senso di essere e reiterarsi. Un canto bestiale, che mastica dolore per trasformarlo nella cura, la medicina (Pain with an Anchor) che salva dalle spire depressive della perdita. Un grido sfrenato di grande umanità e vulnerabilità, che proprio nelle circostanze avverse erge tutt'intorno altissime mura di creatività, una corazza di forza e muscoli, perché percepisce l'allarme del cuore. Ma quelle ciclopiche edificazioni rivelano tra le loro pietre granitiche un segreto fragile: la formazione e la rinascita degli uomini attraverso le sofferenze più intime, un dolore necessario. L'impossibilità di percorrere una strada diversa.

E allora la messa prog rock si dispiega nelle sue forme, recita salmi e innalza inni, stende drappi, accende lumi e fa spazio negli antri più riposti dell'anima. Il viaggio non può essere breve, non può essere facile. Uno sforzo che pare un'ascesi, un transumanare. A bagnarlo sono le lacrime che versa la chitarra ululante di Brent Hinds. Il lamento eterno. Ogni stazione della via Crucis prevede la ripetizione completa del rito (labirinti progressivi, melodie intrecciate, atmosfere plumbee, ricami lucenti, assolo finale), un percorso iniziatico per esorcizzare la negazione dell'essere e ricostruire un orizzonte di realtà. Il processo è doloroso, sfinente, ma anche galvanizzante. La gioia e il peso di perdersi in un'opera grandiosa. Alla fine risorgeremo a nuova vita, ma le terre aspre da attraversare sono vaste, vanno setacciate palmo a palmo. E le parole, mai così sentite, ci nutrono di fiele, beviamo il pianto che fluisce ininterrotto. Intorno iene, corvi, divoratori di anime. Ma la nostra corazza non ci tradisce.

Le confessioni più sincere e nude squillano di una bellezza assurda, che pare contraddirne il dolore, ma ne è in verità suprema affermazione e sublimazione. Perché la rinascita che ci attende alla fine, nelle orchestrazioni austere della conclusiva Gigantium, è tanto dolce quanto aspre sono state le dorsali d'inferno che abbiamo attraversato nel percorso. Una nuova luce, una diversa coscienza di sé, una crescita interiore che non sarebbe stata possibile senza il lutto, la negazione.

Viene voglia di piangere, assaporando certi squarci estatici (Teardrinker) che stracciano candidi le tessiture plumbee e ostili del labirinto che si dipana intorno. Massimalismo musicale estremo: come una punizione, un castigo per espiare la colpa dell'impotenza di fronte alla fine. La litania, il pianto elettrico della chitarra risuona eternamente.

È perdendo tutto che riscopriamo di essere capaci di qualsiasi cosa. E queste quindici canzoni non fanno altro che dimostrarlo. Dopo la morte, non può che esserci la vita. E guardando nell'abisso che ha risucchiato Nick, il caro estinto, non possiamo che provare una vertigine mai conosciuta prima, l'orrore del vuoto, che tutto dissolve. Ma dopo, ripetiamolo, non può che esserci la vita, di nuovo, trionfante. Ed è così che finisce un disco funebre che era facile immaginare nero e sulfureo. Finisce con una rinnovata adesione all'esistenza. Un inno che appare ancora più bello proprio perché bagnato di pianto.

P.s.

Sono passati alcuni giorni. A mente più lucida, posso dire che questo album riesce a conservare l'energia spaventosa dei tempi migliori, dandole anzi una dimensione ancor più tangibile grazie alla produzione intelligente di Bottrill: non avevo mai sentito la batteria di Dailor così presente nell'economia del suono delle canzoni. Così tridimensionale. Bisogna girare la manopola del volume, e si potrà godere appieno di questi scenari vasti e frastagliati così ben concepiti e cristallizzati su disco.

Energia e violenza, ma i brani puramente spaccaossa sono pochi. Ci sono divagazioni doom (More Than I Could Chew, la prima metà di Gobblers of Dregs), ci sono innumerevoli tessiture prog (Sickle and Peace, la seconda metà di Gobblers che ricorda i Genesis), e molto altro. Abbiamo alcune ballate pure, infuse di malinconia e minacciate dall'abisso del dolore: Skeleton of Splendor è sostanzialmente acustica, ed è uno dei picchi del disco. Stesso discorso per Had It All. La voce di Sanders attinge alle corte più profonde dell'anima.

E c'è di più. Vi sfido a resistere alle cadenze southern un po' ubriache di The Beast, creatura dell'onnipotente Brent Hinds (un rimando a Toe to Toes), che si mescolano alle ennesime squisitezze progressive e alla voce pulita di Dailor. Per non parlare delle tessiture dark e ambient di Dagger, o lo shoegaze paradisiaco della conclusiva Gigantium.

Quando vanno via dritti (si fa per dire), la vittoria è fin troppo facile. E allora qua e là ci servono le sfuriate e la velocità di Pushing the Tides, Peace and Tranquillity, Savage Lands. E in tutto questo tenete conto che non ho ancora citato due tra i pezzi più forti. L'incipit epitaffio di Pain With an Anchor, con la chitarra che piange e quel finale tellurico, e la luminosa Teardrinker, dove il dolore risplende d'una bellezza quasi insostenibile.

Una summa e un passo in avanti, non è più “solo” sludge metal, non è “soltanto” prog. C'è un po' di tutto, e tutto fatto come si deve. In alcuni passaggi ricordano i Pink Floyd di Wish. Di fronte alle domande davvero probanti della vita, i nostri hanno capito che limitarsi a degli steccati come i generi musicali è svilente. Hanno aperto definitivamente i loro orizzonti. L'esistenza va celebrata nella sua pienezza, abbracciandone anche la fine, ed esplorandone le infinite possibilità, anche artistiche.

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