L'inferno te lo dispongono lì ordinato sul tavolino, te lo cesellano con quelle dita callose e roventi, compulsando corde e tormentando bacchette. E tu ci sprofondi dentro volentieri, ti fai un bagno in quelle acque termali pronto a uscirne migliore, tonificato. Ti lasci divorare dal leviatano, non opponi resistenza.

Ma a loro questo non bastava più. Ci hanno colato sopra una melassa arcobaleno che non tutti hanno inghiottito volentieri. Lo zucchero non sempre piace, specie se mescolato al fiele.

L'ultimo parto del mammut è un anticristo a due teste, una di mostro e una di infante (Fallen Torches). E mentre sudi nei flutti incandescenti ti chiedi perché quegli squarci di luce quasi apollinea. A chi si rivolgono, cosa vogliono dimostrare.

Al ventesimo compleanno i quattro bruti di Atlanta si sono fatti un regalo. Un passaggio di comprensibile vanità per dirsi quanto sono bravi, più bravi di quel che già si pensi. Hanno messo il masto-dong sul tavolo per mostrare che anche dietro agli ultimi dischi pop-metal ci sono delle sedute estreme di ginnastica musicale. Solo che poi hanno foderato tutto e quelle ripetute estreme si sentono un po' meno di prima, ma in verità sono anche più massacranti di prima.

Il messaggio è questo, un monito, una puntualizzazione. “Guardate che Jaguar God non è meno complicata di Capillarian Crest. E anche quel singolo così radiofonico è un inferno di note”.

La raccolta di reperti non è infatti meramente archivistica, non si tratta di un faldone zeppo di roba a caso. C'è una precisa selezione argomentativa che vuole essere uno sguardo decentrato su questo ventennio così sudato.

I brani proposti in versione strumentale sono insomma a difesa degli ultimi lavori, quelli meno unanimemente accolti (e infatti non ci sono strumentali dai primi dischi, sarebbe stato pleonastico).

Le cover sostengono il versante opposto del discorso, quell'apertura a ciò che metal non è (Feist, Flaming Lips) che forse impedisce loro di potersi godere un meritato, piccolo monumento incensato dai metallari della vecchia scuola. Quella stupidera psichedelica che li rende un po' dei clown in costante parodia dei cliché ammuffiti del genere. Una cazzonaggine confermata in pezzi già pubblicati altrove e qui raccolti, come Atlanta e Cut You Up with a Linoleum Knife. Non prendiamoci troppo sul serio.

Un po' di materiale eterogeneo, dalla glaciale colonna sonora di Game of Thrones al rifacimento grintoso di Orion dei Metallica, che individua uno spettro espressivo decisamente ampio. Ma è questo il dilemma che li perseguita. Troppa roba, troppe aspirazioni, troppo potenziale e poco tempo per dipanarlo, tra un tour e l'altro e dischi frequenti, voglia di arrivare a un pubblico non minoritario. Dalle spacconate che più prog non si può alle melodie delicate, tutto stratificato, condensato in canzoni di quattro minuti per piacere a tutti. Non è facile.

Questa compilation, che si arricchisce con alcune legnate sui denti in sede live, è l'esplosione dell'oggetto che ne mostra tutti i dettagli più intimi e ne individua anche gli errori di montaggio.

Il mio messaggio alla band: prendetevi il vostro tempo, fate decantare tutta quella lava che avete nelle mani e nel cuore. Non abbiate paura di tornare a canzoni di 13 minuti. Fate respirare le corde, dipanate la matassa. Ora che tutto è fermo, avete il tempo necessario per rendere giustizia alla vostra grandezza.

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