La prima volta che ho letto quel nome, Mavis Staples, era un secolo fa, in un articolo dove si parlava delle “fiamme” di Bob Dylan: pare che Bob le chiese di sposarlo e lei gli diede il più classico due di picche. Qualche decennio dopo, lessi un’intervista di lei che scherzava su quella storia, sostenendo che rifiutò la proposta perché a quel tappetto di Bob l’avrebbe messo ko in meno di 30 secondi e, allora, mica poteva sposarselo.
Non mi innamorai di lei solo perché ne ero innamorato dalla prima volta che la vidi.
La prima volta che vidi quel viso era poco meno di un secolo fa, c’entrava ancora Dylan seppure di sguincio, lui era nei paraggi mentre lei stava insieme alla famiglia e a quelli della Band, giravano una scena del film “L’ultimo valzer” e cantavano una canzone intitolata “The Weight”.
In un colpo solo mi innamorai della Band, degli Staple Singers e appunto di Mavis.
Raccontava Mavis che la prima canzone che aveva imparato da papà Pops era “Will The Circle Be Unbroken”, il cerchio è e sarà sempre ininterrotto e se si rompe qualcuno deve richiuderlo e rifarlo ininterrotto.
Ecco, questo “Carry Me Home” più che un album è un cerchio che viene chiuso da Mavis e da Levon Helm sulle note di “The Weight”, e non poteva essere altrimenti: è un album bellissimo, per chiunque abbia un minimo di sensibilità per coglierne la bellezza; ancora di più per chi della Band, degli Staple Singers e di Mavis Staples e di tutto quello che gli gira intorno è innamorato da tempo immemore.
È la Band di “Rock Of Ages” che ha imparato a memoria gli arrangiamenti di Allen Toussaint, sono gli Staple Singers di casa alla Stax, sono un secolo di blues, jazz, gospel, soul e rhytm’n’blues rivisitati con straordinarie intensità e vigore da una numerosa accolita guidata da due indomiti vecchietti, all’epoca 71 anni Levon e 72 Mavis; oggi Mavis va per gli 86 e di tanto in tanto regala ancora emozione, Levon invece morì pochi mesi dopo queste registrazioni, rese pubbliche in occasione del decennale.
Uno dei ricordi più piacevoli di quei giorni, quando mi capitava di innamorarmi della Band o degli Staple Singers, è che comprare un album era spesso un atto di fede cieca e dopo 40 anni sono saldamente convinto che era “bella” pure la sensazione di delusione che mi coglieva di tanto in tanto per un acquisto sballato; quello che resta oggi sono pochi, sparuti album che mi ostino a comprare come atto di pura e cieca fede.
“Carry Me Home” è stato uno di questi, prima ancora della Band di “Rock Of Ages”, degli Staple Singers accasati alla Stax, bla bla bla.
A partire da “This Is My Country” di Curtis Mayfield e fino al Dylan (sempre lui di mezzo) di “You Got To Serve Somebody”, passando per i bei tempi andati con papà Pops di “Move Along Train” e “This May Be The Last Time” e la Levon Helm Band di “When I Go Away”, i blues pre-bellici “Trouble In Mind” e “You Got To Move” rivestiti di una scintillante forgia rhythm’n’blues, una “Farther Along” retta solo dalla voce da brividi di Mavis e il gospel gioioso di “Hand Writing On The Wall” talmente contagioso da pareggiare quello di James Brown che inonda di luce i fratelli Jake e Elwood, tutto dentro questo album parla di anime che soffrono e gioiscono e cuori che battono forte e veloce e poi si rappacificano.
Alla fine, una corale “The Weight” e l’unica è alzarmi e applaudire, anche se sono passati quasi 15 anni da quel momento.
Album straordinario, se non hai la più pallida idea di quello che ho scritto dacci un ascolto e ti innamorerai.
Tutti gli altri già lo sono.
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