Devo proprio ammetterlo: invidio quest'uomo. In primis perché è belloccio, ma di una bellezza rassicurante, e non quella tipica del rockettaro scellerato o del brit popper fighetto. Poi la sua capigliatura: i suoi capelli sono ondulati ma hanno una disciplina, mentre i miei solo lisci come chiodi ed al contempo disobbedienti come cani di strada. Quando s'allungano, poi, mi fanno una zazzera dietro, che me la invidierebbe Carmelo Zappulla... Quindi la bravura alla chitarra, ed il suo rapporto con essa. Una scuola tradizionale, la sua, ed una capacità messa al servizio del componimento, e non - come spesso accade - viceversa; un'abilità mai sprecata in futili esibizionismi, in assoli che devono arrivare puntuali al minuto secondo ed al secondo quarantaquattresimo di ogni brano... Nessun chitarrista del suo livello avrebbe, tra i venti ed i trent'anni, messo su una band che, di disco in disco, vedeva tra i suoi formers trombettisti, sassofonisti, violinisti di Dublino, pianisti, suonatori di fisarmonica, d'armonica a bocca, d'arpa, solisti insomma d'ogni tipo, pronti a "rubare la scena" alla chitarra ed al suo suonatore.

Ma la cosa che ammiro maggiormente in lui è il coraggio di dichiararsi da sempre un pagano, sebbene l'attitudine con cui, nella sua musica, si riferisce alla dimensione spirituale, si rivolge al Divino, ed ancora il suo continuo peregrinare, i suoi interrogativi, la speranza e il suo "senso di precarietà", sono tutti ingredienti specifici del christian rock.

Pagano, si diceva, e per essere pagano al dì d'oggi, o lo dici tanto per dire oppure sei sicuro del fatto tuo. Mike Scott che, dopo l'insuccesso di "Dream Harder" negli Stati Uniti - sua dimora del tempo, per la precisione New York -, si "rifugia" (ritira?) a Findhorn, città-comunità (niente a che vedere con San Patrignano), in riva al fiordo Moray, il più grande di Scozia. Com'era prevedibile, non era la prima volta che metteva piede lì, e sapeva già cosa andare a trovare... Alimenta ivi lo spirito e l'ispirazione, si riaffida ai giganti della musica, suoi maestri, alla sua chitarra ed alle sue mani; pubblica un embrionale disco per i fans, del tutto fai-da-te, intitolato "Sunflowers" e, l'anno successivo, il 1995, debutta a suo nome con questo disco.

Gli strumenti sono pochi, al massimo due chitarre, a volte un'armonica a bocca, un pianoforte, o un Hammond... E se li suona lui. Niente violini, niente piani elettrici, zero trombe medievali, zero sassofoni, niente marchi di fabbrica Waterboys, insomma. Ma neppure tastiere, seconde voci, cori. E nemmeno basso e batteria, od alcuna forma, improvvisata o meno, di ritmica. Come un vero folk singer, insomma. Le canzoni sono impetuose, senza tregua, in moto perpetuo, che quasi mai si rassegnano a passare. "Animose".

Su tutte la title-track, a denti stretti e sofferta, che brucia, acqua di mare su di una ferita. Un dolore che si trascina, che non vuole rassegnarsi a passare, che sfianca. In "Wonderful Disguise" Bob Dylan è scozzese, crede alle ninfe, e va a caccia di balene. Folk dolorosissimo e ballata che satura il cuore. "Edinburgh Castle" è invece un rock acustico ottimo per Patti Smith, l'amore musicale della sua adolescenza, nonché la "ragazza di nome Johnny", in una delle canzoni del suo primissimo disco.

Dylan ritorna, più melodico e dalle migliorate capacità interpretative, nello spiritual "What Do You Want Me To Do?" (e che non si dica che Scott non abbia un songwriting da cristiano-protestante americano) ed in "Learning To Love Him" (dove questo "Him" potete immaginarvi Chi sia), a metà tra lo spiritual (senza cori gospel né organo) ed un placido country, dal finale volutamente incompiuto. Ancora il vecchio Bob, che ringiovanisce, e vede rifiorire in sé la speranza e la gioia del "tormento", in "Long Way To The Light", brano che per chi scrive è da considerare il fratello folk della celeberrima "The Whole Of The Moon".

Piacerebbe agli Arcade Fire ed alla sua audience, "Sensitive Children", organetto chitarra ed armonica, tutta sottovoce ed incalzante, che ti vien voglia di tenere il tempo con i piedi e sbattendo le mani su tutto ciò che ti capita a tiro. E se "Iona Song" è un melodramma d'atmosfera che non decolla, se "I Know She's In The Building" è un blues rock standard, vissuto attorno ad un solo riff (si ribadisce che non esiste alcuna forma di percussione), "City Full Of Ghosts (Dublin)" è un convincente boogie pianistico che sembra pronto in qualsiasi istante a divenire vero e proprio rock'n'roll. E che forse, per un po', lo diventa pure.

Risplende "She's So Beautiful", sfracellacuore. Eppoi la sua voce è così autentica, intensa, ed il suo sottovoce, come vorresti fosse il tuo. Il tormento passionale non si vuole stemperare, ed allora, alla fine del brano, risuona per trenta secondi un pianoforte, e ritorna "Wonderful Disguise". Il disco, che troverete in giro in diverse versioni, con aggiunte di numerosi altri brani, tutti pressoché eseguiti con lo stesso stile, termina "ufficialmente" con "Building The City Of Light", con Patti Smith e con il "wind rock" dei primi Waterboys. Raramente ho sentito un'acustica suonare così forte.

Al mondo sembrerebbe che, per il folk singer che viaggia con la chitarra in spalla e con l'anima dentro uno zainetto, non esista soltanto la spiaggia californiana, il deserto tra Messico e Texas, la roccia impervia del Big Sur, le piantagioni sterminate del Nebraska o, da quest'altra parte, le brughiere Irlandesi... Ci sono pure i fiordi scozzesi, c'è pure Findhorn, nella foce dell'omonimo fiume, nel fiordo Moray. E c'è Iona, isola delle Ebridi Interne, dall'altro lato, terra di pellegrinaggi e ritualità pagane. E di divinità pronte a risorgere. In quella regione del mondo Mike Scott risiede tutt'ora, lì celebra la festa della vita, da lì incide ed eleva le sue preghiere verso il cielo. E lì suona la sua fedelissima chitarra. Chissà quanti altri luoghi meravigliosi, al mondo, per un folk singer. Mike Scott ha deciso di non cercarne più, di interrompere il suo vagabondaggio, di fermarsi per sempre...

E cosa cerca un viaggiatore, se non casa sua?

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