Parlare di un lavoro come "Doo Bop" è un'esperienza particolare, come era peculiare l'artista che lo compose. Per Miles Davis la commistione di generi era un'esigenza forte, una vibrazione interna che lo portava ha creare di volta in volta albums sempre diversi. Perfino in una serie per sua natura omogenea, mi riferisco alla quaterna "Cookin'-Relaxin'-Steamin'-Workin', c'era sempre un qualcosa che rendeva peculiare ogni singolo disco. Andare avanti, contro tutto e tutti, guardare continuamente oltre e spingere quell'accidentaccio di tromba in territori sempre nuovi ed inesplorati, azzardando certo (chi ricorda i suoni 'flippatissimi' di "On The Corner"?) ma regalandoci anche capolavori incredibili come quel peso massimo di "Bitches Brew" che ancora oggi spiazza, sconvolge e ammalia. Con premesse come queste, secondo voi come poteva essere l'ultimo lavoro di un artista del genere? Io dal mio piccolo non posso che dire: controverso! Miles annusava le tendenze musicali come un cane da caccia segue la pista di sangue lasciata da una preda ferita: non era contento finche non trovava il modo di instaurarvi un dialogo, perché questo faceva, non è che prendeva il rock e lo 'jazzificava', no, cercava il modo di farlo comunicare con la sua tromba, di incorporarlo nel suo milieu culturale senza snaturarlo. In lavori come il già citato "Bitches Brew" tutta la potenza rivoluzionaria di un genere che affondava le proprie radici nella cultura afroamericana del Blues e del Jazz stesso non viene assolutamente spenta dall'intervento del buon Miles, un uomo che poteva suonare tranquillamente sia davanti ad una folla di hippies che in una sala concerta seria e compita. Ragazzi miei, scusate le divagazioni ma sono necessarie per entrare nel mood di un lp che fonde Jazz e Rap, campionamenti elettronici e fraseggi di tromba minimali che basano la quasi totalità della loro efficacia sull'atmosfera che riescono a creare. Diciamolo subito: Davis non vola più. E' molto pacato, alcuni direbbero spento, difficilmente alza la voce, il suo modo di suonare me lo fa immaginare come se, intabarrato in un cappotto di pelle nera, passeggia sornione in una metropoli palpitante di luci e rumori. Ecco "Doo Bop" è questo: una passeggiata metropolitana, siamo osservatori esterni di un universo che si muove intorno a noi a velocità convulse. Il tappeto di compionamenti e il rap fungono da sfondo ideale a questa promenade davisiana in cui il nostro si concede qualche spazio di riflessione espresso da frasi brevi, non dico rassegnate ma sicuramente diverse da Miles istrionico degli anni d'oro. C'è una certa continuità tra il fraseggio di "Tutu" e "Amandla" ma è innegabile che ormai il nostro preferisce 'poggiarsi' sul tappeto sonoro piuttosto che influenzarlo direttamente. Ovviamente tutto il discorso sugli ultimi anni di vita di Davis ha un peso enorme sul suo modo di suonare in "Doo Bop" e le critiche a questo lavoro sono comprensibili e condivisibili, però a me questo primo, a detta di molti, esempio di Acid Jazz piace molto. E' quella tromba ragazzi, non posso farci niente. Me lo immagino lì mentre un turbine di auto, moto, passanti gli si intesse intorno e lui fermo che guarda qualcosa per un secondo e poi lancia qualche frase. Gli ultimi lavori di Miles Davis erano tutti qui: atmosfera fumosa in "Tutu" e colori sgargianti in "Amandla", poi infine la commistione cittadina: luci e ombre di metropoli descritte con parole e suoni, Rap e Jazz, novità che si accompagna alla tradizione. Ancora una volta Miles Davis si è dimostrato unico, non immune da critiche ma proprio per questo vero ed emozionante.

Carico i commenti... con calma