Questo scritto, più che una recensione, vuole essere una segnalazione. Vuole lasciare anche in questo sito una testimonianza della grandezza artistica di Mississippi John Hurt. Uno degli interpreti più genuini ma allo stesso tempo originali di quel blues più country, più rurale e più attaccato alle radici ma anche un uomo come tanti.
Poiché bracciante fin da ragazzino, visse, musicalmente parlando e non, in un relativo isolamento: suonava solo musica “old-time” alle feste di piazza, dove si ritrovava la popolazione nera a sfruttare cantando e ballando quei pochi momenti di svago che il massacrante lavoro in piantagione le permetteva. Ebbe una piccola svolta attorno al 1916, anno in cui andò a lavorare in ferrovia, lasciò la propria città natale, Avalon, un minuscolo centro rurale di poco meno di cento abitanti ed iniziò a suonare a tempo perso nelle feste cittadine lungo il delta del Mississippi con il violinista Willie Narmour. Così, uno scout della Okeh Records lo notò e gli fece registrare "Avalon Blues" attorno al ’27-’28, ma, siccome ebbe infimo successo a livello di vendite, il nome “John Hurt” venne ben presto dimenticato. La sua voce era troppo dolce e accarezzante, le sue linee di chitarra erano troppo calme e poco scatenate e, più in generale, il suo stile era troppo lontano da quel blues, da quella “musica del diavolo” che cominciava a spopolare e ad avere successo anche nel mondo bianco. Ma al buon Mississippi John Hurt non interessava affatto il successo commerciale, era uno di quelli che incarnava nella maniera più coerente e limpida l’animo blues; suonava il blues nelle circostanze e per gli scopi per cui era nato questo immenso genere musicale: suonava per migliorarsi, per il gusto di farlo, per svagarsi e dare svago agli amici dopo quattordici ore passate a rompersi le ossa nelle piantagioni. Timida e pura personalità nel mondo del blues, lontana dagli eccessi che caratterizzarono Robert Johnson et similia, sviluppò tuttavia un suo personalissimo stile: un blues intimo, cullante, con una voce sempre un po’ malinconica e con uno stile chitarristico innovativo (inventò il “finger-picking”, dove il pollice della mano destra imitava le ritmiche del pianismo ragtime mentre le altre dita suonavano la melodia) che ebbe una vasta influenza sulle generazioni future di cantautori.
Infatti Mississippi John Hurt raggiunse il successo mediatico, assieme a Bukka White, Furry Lewis, Blind Limon Jefferson, etc, durante la cosiddetta scena “folk-revival” di fine anni Cinquanta e inizio anni Sessanta, ben trentacinque anni dopo le sue registrazioni per la Okeh Records. Uno studente lo venne a cercare, nel 1965, fino alla sua città natale, Avalon, dove l’ormai settantenne John Hurt si godeva la sua vecchiaia riposando la sua schiena provata da anni e anni di lavoro nelle campagne del delta del Mississippi. Egli, nonostante l’età avanzata, aveva ancora conservato la propria bravura musicale, continuando a coltivare l’amore per la chitarra che lo aveva rapito fin dalla giovinezza. Accettò le proposte del giovane e cominciò a registrare nuovi dischi, ad andare a parlare nelle scuole e a suonare nei festival folk, nei college, negli auditorium e, addirittura, in televisione al Tonight Show. Morì poco dopo questo improvviso boom di successo, nel 1966, godendosi con la semplicità di chi ha sempre vissuto nella poverà quel denaro che si guadagnò in quel breve ma intenso periodo di fama. La sua immortale genuinità musicale (e non) influenzò molti ambiti musicali, dal bluegrass, al country ma soprattutto il cantautorato folk di artisti come Bob Dylan e Tom Paxton (quest’ultimo gli rese più di un omaggio). Emblematica l’immagine di quando Mississippi John Hurt partecipò al Newport Folk Festival, dove suonava anche l’allora emergente Bob Dylan: un passaggio di testimoni che da una precisa idea della sua importanza musicale.
Questo “Best Of”, inciso per la Vanguard nel 1966, raccoglie tutti i suoi pezzi principali, da “Candy Man” a “Coffee Blues”, e testimonia la sua innata capacità di trasformare canti della tradizione nera in calme ballate, come ad esempio “Stagolee”. Una delle musiche, un perfetto sposalizio tra calmo blues, folk, country e musica “old-time”, più intense di sempre. Mississippi John Hurt era un cantastorie fenomenale, uno di quelli a cui non servivano barocchi arrangiamenti o inutili tecnicismi per arrivare a vette di espressività toccate poche volte dal blues. Una musica che non renderebbe a pieno su disco; inviterei il fantasma di Mississippi John Hurt a tornare quaggiù e ad imbracciare ancora una volta la sua rudimentale chitarra acustica: lo pregherei di suonare e di bersi un bicchiere di Four Roses in mia compagnia durante il tramonto, in un tranquillo angolo della campagna più incontaminata e poi, una volta tolte le spighe di grano dai denti, di distendersi a guardare le stelle sul verdissimo manto erboso con la schiena inumidita dalla rugiada prima di ritornare lassù, ad allietare i suoi fortunati coinquilini in Paradiso.
Questa è, a mio avviso, la circostanza più adeguata all’ascolto delle sue ballate: dite che quel vecchio simpaticone di Dio glielo timbrerebbe per un giorno il permesso?
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