Sono diventato un fottuto snob cacone, pigro e cazzaro, oltrechè vanamente consenziente alla vacuità retrostante al ballare d'architettura. Intendiamoci, all'urgenza d'esprimere obbligatoriamente un giudizio, per quanto consapevolmente inutile, si è sostituito il muto piacere cerebrale dell'ascolto solitario, di cui non s'avverte la necessità di recare spiegazione. Stanco principalmente degli straripanti ego di cui taluni si assuefanno. Musicisti e ballerini d'architettura.

In tutto questo, non riesco comunque a non provare una sincera ammirazione per quanti, musicisti e ballerini d'architettura, riescano a comunicarmi la sincerità dei loro intenti nella ricerca pura dell'essere che sì, potrebbe nascondere in realtà un voler apparire di essere, tornando così punto a capo. O forse no.

Ma chisseneincula a un certo punto.

Quello che mi preme dire è che i Mogwai, giunti ormai al settimo album in studio dopo una quindicina d'anni di rispettabile carriera, sono uno di quegli enti musicali cui va tutta la mia più sentita stima e rispetto. Quello che più mi colpisce di questo gruppo è la trasudante sincerità e naturalezza che aleggia in ogni loro disco, indipendentemente da quanto possa risultare convincente il prodotto finale.

Non solo: i Mogwai sono riusciti dove un'infinità d'altri hanno fallito, dove centinaia di apparenti promesse sono scivolate nella scatola dei ricordi senza troppo chiasso. Pur rimanendo saldamente ancorati fin dagli esordi ad una pressochè unica ed evidente "filosofia musicale" (quella del wall of sound, degli sbalzi dinamici, del crescendo e dell'alienazione - in una parola, Post Rock),  hanno avuto la non comune capacità di reinventarsi giocando continuamente con i codici espressivi e con le aspettative dell'ascoltatore, che ormai ha imparato a prevedere l'epilogo della storia ma non il suo svolgimento. In tal senso potremmo chiamarli i Feydeau della musica, eterni, magistrali propinatori della stessa piéce incessantemente travestita; c'è da chiedersi del resto quale sia il vero compito dell'artista in generale, se sfornare continuamente idee disparate in un continuo tentativo di rinnovamento oppure cercare nuovi sviluppi e applicazioni per ciò che gli riesce più naturale.

Appunto. In questo disco non troverete nè più nè meno di quello che potreste aspettarvi dai Mogwai, ma ancora una volta realizzato in una forma nuova. Tralasciando l'unico momento morto del disco, vale a dire "Letters To The Metro" (davvero eccessivamente autoreferenziale), "Hardcore Will Never Die, But You Will" (a proposito, titolo fantastico!) a dispetto delle tinte fosche e malinconiche della copertina è un disco tirato e pestato a dovere, dove chi ama i Mogwai potrà trovare ancora una volta tutto quello che potrebbe chiedere loro, e forse qualcosa in più (vedi l'ossessiva "Mexican Grand Prix", personalissima rilettura dell'electro-punk, o le maestose sbrodolate sonore della conclusiva "You're Lionel Richie").

Sicuramente questo disco assumerà una nuova e ancora migliore prospettiva in sede live, perciò vi consiglio caldamente di alzare le chiappe e andare a vederli ad una delle imminenti date italiane. E venite anche a raccontarmi com'è, che io purtroppo questo giro passo.

O li ami o li odi: a voi la scelta. 

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